Sayfadaki görseller
PDF
ePub

e deturpa la gioventù odierna non vuolsi scompagnare da quella critica, che più mostra severità coi più grandi, perchè i loro errori non allettino colle finezze di cui sono vestiti, e perchè ogni loro fallo trae molti a fallare.

Non sappiano gli stranieri che in Italia, come su tutti i punti, così si litiga sull'ortografia. Noi anche in ciò stiamo colla pluralità; e autorizzati da filologi non pedanti, svecchiammo alquanto quella degli autori arcaici.

Ai signori critici inchinammo sempre le spalle, mai la coscienza; nè lo scrivere oggi e qui reputeremmo atto di coraggio se, in letteratura nè in cose di maggior rilievo, ci piegassimo a farci eco del vulgo patrizio e dotto, e degli schiamazzanti inoperosi. Avvezzi e rassegnati alla disapprovazione precettoria e all'infame insinuazione, ci basti avvertire che un libro fatto per la gioventù, cioè per l'avvenire, richiede tutt'altro vaglio del giornalistico; richiede un religioso rispetto non solo per la costumatezza, ma per la sana ragione, pe' giudizj morali, per la storica verità. Basterà ciò a farci perdonare l'aver taciuto un ordine intero e copiosissimo di componimenti, e negli altri levato, e persino mutato qualche frase e parola? Ce ne riferiamo ai savj maestri e ai padrifamiglia, pregandoli d'esercitar su questa compilazione la scrupolosa ragionevolezza che ben merita un affare supremo, qual è l'educazione.

Formar dei letterati oh non cerchiamo noi. Già troppi si precipitano su quel calle, credendolo facile perchè affollato; credendolo piacevole perchè non vedono di quali strazj e sconforti lo imbronchi il mondo gaudente, spassandosi a maltrattar gli eletti ingegni e i nobili caratteri che non può avvilire. A quelli, in cui il Cielo unì slancio ideale, intuizione calma della natura, spirito estetico, elevamento religioso per divenir letterati, tributiamo ammirazione e compassione; ma il nostro libro non varrà nè ad impedirli nè ad incoraggiarli. Il genio s'apre la via da sè; sposando il semplice all'ideale, l'interesse del cuore a quello dell'arte, i sentimenti dell'individuo a quelli della nazione e del genere umano, si eleva malgrado i precetti; e passeggia immortale sopra i frantumi delle umane grandezze. Il gusto, suo minore fratello e non mai suo avversario perchè valuta il vero talento e l'emozione sincera, s'acquista col paragone, s'alimenta colla benevolenza, si riscontra colla morale.

Bene scrivere importa ben sentire, ben pensare, ben esprimere; laonde l'intelligenza nulla vale separata dalle leggi morali; non v'è scienza fuor quella che conduce a virtù; bisogna istruirsi per divenir galantuomini; bisogna investigare il bello, professare il vero per operar il bene.

Ed ecco tornar sempre al pettine questo intreccio del bello col buono e col vero; ecco sempre la letteratura presentarcisi come poderoso stromento d'educazione, cioè d'emancipazione. Quando ne' giovani avremo eccitato ammirazione per le elevate cose, affetto per la natura, gusto pel bello semplice e per

la sobria eleganza, potremo sperare una letteratura meno ornatamente frivola dell'antica, meno ambiziosamente rapsodica della moderna; non cronicamente sentimentale, non epiletticamente oziosa, non presuntuosamente sterile; ma che, creata dal bisogno artistico di esprimere e comunicare i sentimenti più nobili e profondi, viva d'affetti, di studj, di meditazione, d'umiltà; come la vita intera, sia un'educazione del cuore, e concorra a fare amar la patria, ed aborrire da qualsiasi viltà; a togliere le snervanti incertezze; a rinverdire gli affetti, inariditi dai computi e dal dubbio; a rialzare i principj e i desiderj in modo, che ammortiscano la violenza delle cadute; a diffondere la luce, non coll'impeto del fulmine, ma col progredimento dell'aurora; a famigliarizzare la pubblica coscienza colla politica istituzione la meglio utile e giusta; a preparare una generazione che raggiunga quella terra promessa, verso la quale noi trasciniamo l'arca santa e le speranze, traverso a deserti di miserabili disinganni, di invido egoismo, d'ambiziose petulanze. Iddio mitighi i persecutori, e conservi qualche coraggio ai buoni!

Milano, settembre 1856.

CAPO PRIMO

ETÀ FILOLOGICA

Non si dà un momento ove una na- | logia, all'eufonia, alla logica naturale;

zione smetta una lingua per assumerne un'altra; ma, come in tutti gli effetti di natura, così anche nel parlare v'è una concatenazione, per cui il vecchio cessa di sussistere solo a misura che sottentra il nuovo. Agli abitanti d'Italia era divenuta comune la favella, che fu denominata latina dal Lazio, paese in cui è situata Roma, che tutta la penisola avea conquistato. Ma nelle provincie quella lingua era modificata dai dialetti antichi sopravissuti. Che se anche nelle età moderne democratiche il parlare del vulgo differisce da quel degli scrittori, molto più nelle antiche, dove i patrizj, cioè il popolo conquistatore, rimanevano separati dalle plebi, cioè dai popoli vinti. Nessuno creda dunque che in Italia si favellasse come leggiamo in Cicerone o in Livio; e di fatto in questi non troviamo certi modi e voci, che poi ricorrono frequenti nelle lettere famigliari, nei comici, o in altri scritti di men forbita confezione.

spiegando le relazioni per mezzo delle preposizioni, anzichè colle variate desinenze dei casi; dinotando molti accidenti del verbo mediante gli ausiliarj; precisando meglio i soggetti coll'articolo; attenendosi all'ordine delle idee, anzichè alla sintassi complicata e all'inversione. Sono queste le capitali differenze fra il parlar nostro e il latino: e tutte si trovano già negli antichi e viepiù in quelli che scrissero con minor pretensione, cioè meno lontani dall'uso comune. Le parole nostre poi sono d'origine latina, eccettuate alcune pochissime derivate da lingue affini alla latina, come sono la greca e la tedesca, I conquistatori stranieri poco o nulla ci recarono, anzi adottarono essi medesimi il parlar nostro, per la necessità di farci intendere i comandi e d'esporci i bisogni 1.

Ma perchè tale idioma era vulgare, pareva indegno degli scienziati e si studiavano piuttosto di scriver in latino, lingua che del resto dev'essere carissima agli Italiani come preziosa eredità, e come gloria singolare del bel nostro paese. Mancando però d'arte, quegli scrittori davano in continui sbagli di casi, di concordanze, di declina

Quando, perita la libertà aristocratica, Roma cogli imperatori divenne popolare, l'idioma del vulgo prevalse; e viepiù dacchè i Cristiani, volendo farsi intendere alle persone anche basse, se ne valsero per tradurre i libri santi e per le loro prediche, discus-zione; e vi mescolavano frasi e voci sioni, apologie. Le irruzioni dei Barbari che distrussero l'Impero, scompigliarono la letteratura, e i pochi che scrivessero il facevano a modo del vulgo, e perciò si dissero vulgari.

della lingua in cui pensavano e favellavano. Per alcuni secoli dunque si trovò perito il bel latino in difetto di studj, mentre il nuovo latino, cioè l'italiano, non veniva coltivato, parendo troppo umile. Il popolo l'usava tuttavia, e meglio che altrove nelle provincie che meno sentirono l'oppressione de' Barbari, cioè Toscana,

Il vulgar nostro non è dunque se non il latino che parlavasi anche ne' bei tempi di Roma, alterato dal volgere di duemila anni e da tante vicende, e, come avvenne di tutte le lingue moderne, reso più semplice, più analitico, più dolce, dietro all'ana- degli Italiani, Appendice 1.

(1) Amplissime prove di ciò, e dei progressivi sviluppi della nostra lingua, porgemmo nella Storia

Romagna, Sicilia. Già nell'800 parlavasi l'italiano odierno; poco dopo si cominciò a scriverlo: e più quando gli Italiani, riscossi dalla lunga oppressione degli stranieri e de' feudatarj, si costituirono in Comuni, molti de' quali divennero gloriose repubbliche. Nei parlamenti trattavano gli affari pubblici nella favella del popolo, la quale così addestravasi in materie impor tanti ed a vestire idee più complicate che non le domestiche: onde la lingua italiana compivasi, non per opera de' letterati, ma del popolo, dal qual solo essa riconosce vita e sovranità. Di là l'assunsero quei che la scrissero; e se un padrino (per dir così) della nostra lingua scritta fu il patriotismo, l'altro fu la religione. 1 frati, gente tutta del popolo, se ne valeano pei cantici, per le orazioni, per le prediche, per le leggende che destinavano alla classe numerosa. Quelli pure che volessero piacere al bel mondo e alle donne, in lingua vulgare celebravano la beltà e le prodezze.

Abbiamo poesie galanti fin del 1200, opere di Federigo I imperatore, morto il 1251; di Enzo suo figliuolo, di Pier delle Vigne suo segretario. Anteriore ad essi suppongono Ciullo d'Alcamo siciliano, di cui ci resta un componimento a botta e risposta, il quale comincia così:

[l'estate,

Rosa fresca aulentissima 2 che appari in ver L'omini te desiano, pulcelle, maritate. Traemi d'este focora 3 se t'este 4 a volontate:

Per te non ajo 5 ben o nocto o dia Pensando pur di voi, madonna mia.......... Cercata i'ho Calabria, Toscana e Lombardia, Puglia, Costantinopoli, Genua, Pisa, Soria, Lamagna, Babilonia e tutta Barberia :

Donna non trovai in tanti paesi;
Onde sovrana di mene 6 te presi.

(2) Olente, odorosa.

(3) Molti plurali formavansi anticamente a questo modo; or non si conservò che alle tempora della Chiesa, e alle donora delle spose.

(4) Este, dal latino est, è: e poc'anzi este per queste, che trovasi frequente negli antichi.

(5) Ajo, aggio, ho bene notte nè giorno.

(6) Mene me: l'usan ancora i campagnuoli in To

scana.

Presto alcuni tolsero a notar così gli avvenimenti dei proprj paesi : e le più antiche cronache conservateci sono le napoletane di MATTEO SPINELLI da Giovenazzo dal 1247 al 1268; e le toscane di MARCHIONNE DA COPPO STEFANI"; di RICORDANO MALESPINI di rozza schiettezza, che morì nel 1281 ; di DINO

(7) COME SAN GIOVANNI GUALBERTO SANTIFICO'

Negli anni di Cristo ML. .... uno giovane gentile uomo della casa di Petrojo di Valdipesa, cittadino di Firenze, cb'avea nome Joanni, figliuolo di messer Gualberto Petroio; gli era stato morto un suo fratello; andando per vendicarlo, trovollo in un luogo stretto, ove colui non si poteva fuggire; di che costui vedendolo, non possendo altro fare, s'inginocchiò a' piedi del cavallo, e chiesegli perdono per l'amore di Cristo. Joanni mosso per l'amore di Cristo, disse: Ed io a Cristo darò te, ed egli ti perdoni Era presso alla chiesa di San Miniato a Monte: menollo colà, e andonne a uno Crucifisso e a lui l'offer se. Lo Crucifisso s'inchinò, ed abbassossi col capo e col busto. Veggendo Joanni questo miracolo, subito si converti e rendessi monaco in quel luogo, e poi si parti, ed andonne, per fare più aspra penitenza, nel luogo ove è oggi la badia di Vallombrosa, e quivi esso a Dio servi, ed ultimamente fece sì, che Iddio lo santificò; e fecesi una badia per modo, che di quella badia molte e molte badie sono discese. Esso mori con molti miracoli negli anni di Cristo MLXXII, e fu canonizzato da papa Gregorio; e quivi, si dice, è il suo corpo.

(8) D'UN LEONE CHE NON OFFESE UN FANCIULLO

Fu presentato (dato in dono) al comune di Firenze un nobile e feroce leone, il quale fu rinchiuso in sulla piazza di San Giovanni. Avvenne che, per mala guardia di colui che lo custodiva, uscì della sua stia (gabbia) correndo per Firenze; onde tutta la città fu commossa di paura. E capitò in orto Santo Michele, e quivi prese un fanciullo, e tenealo fra le branche. E vedendo la madre questo (e non ne avea più, e questo fanciullo partorillo poichè 'l padre fu morto da suoi nemici di coltello) come disperata, con grande pianto, e scapigliata, corse control leone, e trassegliel dalle branche. E il detto leone niuno male fece nè alla donna, nè al fanciullo, se non che gli guatò, e ristettesi. Fu questione quale cosa fosse o la nobiltà della natura del leone, o che la fortuna riservasse la vita al detto fanciullo, che poi facesse la vendetta del padre, com'egli fece. E fu poi chiamato Orlanduccio del leone. E questo fu negli anni di Cristo 1259.

COME AMBASCIATORI FIORENTINI E PISANI
EBBERO QUESTIONE IN ROMA

Alla incoronazione dello imperatore Federigo II si ebbe grandi e ricchi ambasciatori di tutte le città d'Italia; e di Fiorenza vi fu molta buona gente, e simile di Pisa. Avvenne che un grande signore romano ch'era cardinale convitò a mangiare i detti ambasciadori di Fiorenza; e andati al suo convito, uno di loro veggendo un bello catellino di camera, il domandò. Diss'egli, mandasse per esso a sua volontà. Poi il detto cardinale convitò l'altro di appresso gli ambasciadori di Pisa ; e per lo simile modo invaghì uno di loro del detto catellino, e si glielo domandò: ed egli glielo donò, e disse mandasse per esso a sua volontà, non ricordandosi l'avesse donato all'ambasciadore fiorentino. E partito il convito,

COMPAGNI, che ha brevità, precisione, vigore, qual può desiderarsi in istorico

l'ambasciadore di Fiorenza mandò per lo catellino ed ebbelo. Poi vi mandò l'ambasciadore di Pisa, e trovò come l'aveano avuto gli ambasciadori di Fiorenza. Recaronolsi a onta e a dispetto, non sapendo com'era intervenuto; e trovandosi insieme i detti ambasciadori per Roma, richiedendo il catellino, vennero a villane parole, e di parole si toccarono, onde gli ambasciadori di Fiorenza furono soperchiati e villaneggiati; perocchè gli ambasciadori di Pisa avieno cinquanta soldati di Pisa: per la qual cosa tutti i Fiorentini ch'erano in corte del papa e dello imperatore, si accordarono, e assalirono i detti Pisani con aspra vendetta. Per la qual cosa scrivendone a Pisa, com'erano stati soperchiati da' Fiorentini e ricevuto grande vergogna, incontanente fecero arrestare tutta la roba dei Fiorentini che si trovò in Pisa, ch'era grande quantità. I Fiorentini per fare restituire a' loro mercatanti, più ambascerie mandarono a Pisa, che per amore dell'amistà antica dovessero rendere la detta mercatanzia. Non l'assentirono, dando cagione che la detta mercatanzia era barattata. Alla fine s'arrecarono a tanto i Fiorentini, che mandarono pregando il comune di Pisa, che in luogo della mercatanzia mandassero altrettante some di qualunque vile cosa fosse, a soddisfazione del popolo, e che non lo recassero a onta; e'l comune di Fiorenza ristituirebbe di suoi denari i suoi cittadini: e se ciò non volessero fare, protestavano che più non poteano durare l'amistà con loro, e sarebbe cagione e principio di fare loro guerra; e questa richiesta durò per più tempo. I Pisani per loro superbia, parendo loro essere signori del mare e della terra, risposero ai Fiorentini, che, qualunque ora uscissero fuora contro di loro a oste (esercito), rammezzerebbero loro la via: e così avvenne che i Fiorentini, non possendo sostenere l'onta e il danno che riceveano, cominciarono loro guerra.

IL CARROCCIO

Il Carroccio era un carro in su quattro ruote, tutto dipinto vermiglio, ed eravi suso due grandi antenne vermiglie; in sulle quali stava e ventolava il grande stendale dell'arme del comune di Fiorenza, ch'era dimezzata bianca e vermiglio : e tiravalo un gran pajo di buoi coperti di panno vermiglio che solamente erano diputati a ciò, e il guidatore era franco nel Comune. Questo Carroccio usavano gli antichi per trionfo e dignità, e quando s'andava in oste, i conti vicini e' cavalieri il traevano dell'opera di San Giovanni, e conducevanlo in sulla piazza di Mercato Nuovo, e posato per mezzo di uno termine che v'è d'una pietra intagliata tonda a guisa di ruota di carro, si lo accomandavano al popolo, e' popolari il guidavano nell'oste; e a ciò erano diputati in guardia dei migliori e più perfetti e più forti e vertudiosi popolari della città, e a quello s'ammassava tutta la forza del popolo. E quando l'oste era bandita, un mese innanzi che dovesse andare, si ponea una campana in sull'arco di Porta Santa Maria, ch'era in sul capo di Mercato Nuovo, e quella era sonata al continovo di di e di notte; e ciò era per grandigia di dare campo al nimico contro cui era bandita l'oste, che si apparecchiasse; e chi la chiamava Martinella, e chi la Campana degli Asini.

E quando l'oste andava, si levava dell'arco, e ponevasi in su uno castello di legname fatto in su uno carro; e il suono di quello guidava l'oste. E di queste due pompe del Carroccio e della Campana si reggea la superbia del popolo vecchio e de' nostri antichi.

semplice e veritiero. Così egli espone l'origine delle fazioni de' Guelfi e Ghibellini in Firenze.

Dopo molti antichi mali ricevuti per le discordie dei suoi cittadini, una ne fu generata nella detta città, la quale divise tutti i suoi cittadini in tal modo, che le due parti nimiche s'appellarono per due nuovi nomi, cioè Guelfi e Ghibellini. E di ciò fu cagione in Firenze, che un nobile giovane cittadino, chiamato Buondelmonte de' Buondelmonti, avea promesso tôrre per sua donna una figliuola di messer Oderigo Giantrufetti. Passando di poi un giorno da casa i Donati, una gentil donna, chiamata madonna Aldruda, donna di messer Forteguerra Donati, che avea due figliuole molto belle, stando a' balconi del suo palagio, lo vide passare 9, e chiamollo, e mostrogli una delle dette figliuole, e dissegli: Chi hai tu tolta per moglie? io ti serbava questa. La quale guardando, molto gli piacque, e rispose: Non posso altro oramai. A cui madonna Aldruda disse: Si puoi; chè la pena pagherò io per te. A cui Buondelmonte rispose: E io la voglio; e tolsela per moglie, lasciando quella che avea tolta e giurata. Onde messer Oderigo dolendosene coi parenti e amici suoi, deliberarono di vendicarsi, e di batterlo e fargli vergogna. Il che sentendo gli Uberti, nobilissima famiglia e potente, e i suoi parenti, dissero che voleano fosse morto: che così fia 10 grande l'odio della morte come delle ferite cosa fatta capo ha 11. E ordinarono ucciderlo il di che menasse la donna, e così fecero. Onde di tal morte i cittadini se ne divisero: e trassersi insieme i parentadi e le amistà 12 d'ambedue le parti: per modo che la detta divisione mai non fini. Onde nacquero molti scandali e omicidj e battaglie cittadinesche.

Il buon cronista, narrati gli scandali della città divisa, con generoso sdegno prorompe:

Levatevi, o malvagi cittadini, pieni di scandali, e pigliate il ferro e il fuoco colle vostre mani; e distendete le vostre malizie; palesate

[blocks in formation]
« ÖncekiDevam »