Laffo, fe ragionando fi rinfrefca Che nacque il giorno ch'io Laffai di me la miglior parte addietro; Onde 'l mio dolor crefca? E perchè pria tacendo non m' impetro? Non moftrò mai dinfores Nafcofto altro colore; 2.11 9 19 Che l'alma feonfolata affai non moftri E la fera dolcezza ch'è nel core; Per gli occhi, che di fempre pianger vaghi Novo piacer; che negli umani ingegni Più folta fchiera di fofpiri accoglia! Ed io fon'un di quei che pianger giova: Che di lagrime pregni Sien gli occhi miei, ficcome 'l cor di doglia: E perche a ciò m' invoglia Ragionar de' begli occhi; (Ne cofa è che mi tocchi, Ofentir mi fi faccia così addentro) Cola donde più largo il duol trabocchi, Le treccie d'or, che devrien far il Sole E' bel guardo fereno; Ove i raggi d' Amor si caldi fono, Rade nel mondo, o fole, Che mi fer già di sè cortefe dono, Più lieve ogni altra offefa, Che l' effermi contefa Quella benigna angelica falute Deftar folea con una voglia accefa: Tal, ch' io non penfo udir cofa giammai, E per pianger ancor con più diletto;: 1 E gli atti fuoi foavemente alteri, Torre d'alto intelletto, Mi celan quefti luoghi alpeftri, e feri: Vederla anzi ch' io mora: Però ch' ad ora ad ora S' erge la fpeme, e poi non fa ftar ferma; Ma ricadendo afferma Di mai non veder lei che 'l ciel' onora; E dov' io prego, che 'l mio albergo fia. Canzon, s'al dolce loco La Donna noftra vedi; Ch' ella ti porgerà la bella mano, Non la toccar: ma reverente a' piedi O fpirto ignudo, od uom di carne, e d'offa. Ad Offo fcrive, dolendofi d'un velo, del chinar gli occhi, e della mano di Laura, che gl' impedifcano la vifta degli occhi più che non fanno altri impedimenti. Orfo, e non furon mai fiumi, nè ftagni, Nè di muro, o di poggio, o di ramo ombra; 糕糕 ******* ******* SONETTO XXXI. Si fcufa che tardi fi muove a veder Laura. Non è, dice, proceduto da poco amore, ma da diliberato configlio molto prima, per non incontrare gli occhi turbati di Laura. Lo temo sì de' begli occhi l' affalto, Ne' quali Amore, e la mia morte albergas Loco non fia dove I voler non s' erga; Per non ravvicinarmi a chi mi ftrugge; SONETTO XXXII. Aveva imprefoil Petrarca di voler accordar infieme la Dottrina Platonica, e la Criftiana; ed aveva mandato à domandare alcuni libri di Santo Agostino a Roma ad un'amico, il quale tardando a mandargli, gli fcrive il prefente Sonetto, follicitandolo, col dimostrargli l' onore graude, che n' uscirà. S'Amore, o Morte non dà qualche ftroppio Alla tela novella ch' ora ordifco; E s' io mi fvolvo dal tenace visco, Mentre che l'un con l'altro vero accoppio; I' farò I' farò forse un mio lavor sì doppio opra Tra lo ftil de' moderni, e 'l fermon prisco; Che (paventofamente a dirlo ardifco) Infin' a Roma n'udirai lo fcoppio. Mà però che mi manca a fornir l' Alquanto delle fila benedette, Ch'avanzaro a quel mio diletto Padre; Perchè tien' verfo me le man sì strette Contra tua ufanza? i' prego che tu l' E vedrai riuscir cofe leggiadre. opra: SONETTO XXXIII. ma I tre feguenti Sonetti fono teffuti con une medefime Rime:" i due fono di una materia, e continuati in guifa, che non fi può leggere il fecondo fenza il primo, cominciando da Ma. Or nel primo dice che, partendofi Laura, fi turba il tempo tuona, nevica, e piove fuori di ftagione: il Sole s'afconde, le Stelle crudeli mandano effetti rei; ę nafce tempefta in mare: vento trae in aere, in acqua, ed in terra. Q uando dal proprio fito fi rimove L'arbor ch amò già Febo in corpo umano; Per rinfrescar l' afpre faette a Giove: |