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verdura, verdura dico fruttifera di vera pace; per il quale verdeggiamento fiorendo la vostra terra, il novello agricoltor dei Romani più affettuosamente e più confidevolmente aggiogherà all' aratro i buoi del suo consiglio. Perdonate, perdonate oggimai, o carissimi, che avete meco ingiuria sofferto, affinchè l'ettoreo pastore vi conosca pecorelle del suo gregge; il quale, quantunque per divina concessione abbia in mano la verga del temporale castigo, pure, perchè sappia odore di colui, dal quale come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, volentieri corregge la sua famiglia, ma più volentieri le usa misericordia.

Perciò, se veschia colpa non pone ostacolo, la quale spesse volte come serpente si contorce ed in sè stessa si rivolge, voi tutti potete quinci riconoscere la pace essere all'uno ed all'altro apparecchiata, e potete gustar le primizie della sperata allegrezza. Svegliatevi adunque tutti, e levatevi incontro al nostro re, o abitatori d'Italia, riserbandovi non solo al suo imperio, ma come popoli liberi al suo reggimento. Nè solamente vi esorto che vi leviate a lui incontro, ma che altresì davanti al suo aspetto mostriate reverenza. O voi che bevete alle sue fonti, e navigate per i suoi mari; voi che calcate le arene dei lidi e le sommità delle Alpi che sono sue; voi, che di qualunque cosa pubblica godete, e le cose private non altramente che pel vincolo della sua legge possedete, non vogliate, sì come ignari, ingannare voi stessi, quasi nel cuore sognando e dicendo: Non abbiamo padrone »; imperocchè orto e lago di lui è quanto il cielo accerchia. Infatti di Dio è il mare, e fecelo egli, e la terra fu fondata dalle sue mani. Onde in maravigliosi effetti riluce, Iddio avere predestinato il romano principe, ed attesta la Chiesa averlo egli posteriormente confermato colla parola del Verbo.

E veramente, se per quelle cose che furono da Dio fatte, veggonsi dall'umana creatura coll'occhio dell' intelletto le invisibili, e se dalle cose più note si appalesano a noi le più ignote; ben s'appartiene all'umana apprensiva, che per il moto del cielo il motore e il voler suo conosciamo; e questa predestinazione, anche ad occhio che leggermente guardi, con facilità si farà chiara. Imperocchè se dalla prima favilla di tal fuoco torniamo col pensiero alle cose passate, dico dal tempo che dai Frigii fu dinegata agli Argivi l'ospitalità, e se ne piaccia riandare le gesta del mondo fino ai trionfi d'Ottaviano, ne vedremo alquante avere oltrepassato l'altezza dell'umana virtù, e Dio, per mezzo degli uomini, quasi come

per virtù di nuovi cieli, averle operate. Non sempre infatti operiamo noi, anzi siamo talvolta stromenti di Dio; e le volontà umane, in cui è innata la libertà, agiscono talvolta immuni anco di terreno affetto, e spesso, senza saperlo, sottoposte come sono alla volontà eterna, servano a lei.

E se questi argomenti, che sono quasi principii a provare ciò che si cerca, non bastano, chi mai dalla dedotta conclusione, per tali fatti innanzi passando, non sarà costretto ad opinar meno, vedendo la pace aver per dodici anni abbracciato tutto il mondo; pace, la quale, per compimento dell' opera, dimostrò la faccia del suo sillogizzatore. figliuolo di Dio ? E questi, fatto uomo mentre a rivelazione del Santo Spirito evangelizzava la terra, come se partisse due regni, distribuendo a sè ed a Cesare tutte le cose, giudicò si rendesse all'uno ed all'altro ciò che gli appartiene.

Che se l'animo pertinace addimanda più avanti, non consentendo ancora alla verità, esamini le parole di Cristo eziandio quand'egli era in ceppi; al quale opponendo Pilato la sua potestà, egli ch'è nostra luce, affermò che quel potere, onde costui siccome vicario di Cesare si vantava, dall'alto proveniva. Nen andate dunque, siccome le genti vanno, camminando nella vanità del senso ingombrati dalle tenebre, ma aprite gli occhi della vostra mente, e guardate come il Signore del cielo e della terra stabilì a nostro governo un Monarca. Questi è quegli che Pietro vicario di Dio ci ammonisce d' onorare; questi è quegli che Clemente, ora successore di Pietro, illumina della luce d'Apostolica benedizione, acciocchè dove il raggio spirituale non basta, lo splendore del minor lume ne rischiari (1).

Il Pontefice, dopo l'uccisione d'Alberto d'Absburgo, s'era adoperato per la nomina d'Arrigo VII. Si trattava d'eleggere il nuovo Re dei Romani, che sarebbe stato il futuro Imperatore. Filippo il Bello sperava con l'aiuto di Clemente V d'avere, qualora non fosse possibile per lui, almeno per il fratello Carlo di Valois la corona im

(1) Cfr. IL CONVITO DI DANTE ALIGHIERI e le Epistole con illustrazioni e note di Pietro Fraticelli e di altri. Op. cit. Epistola V, p. 441 e seg.

periale. Il Papa, trovandosi in Francia, non poteva opporsi direttamente a un tal disegno; ma non voleva neppure favorirlo per non compromettere se stesso e l'avvenire politico della Chiesa. Egli pensava che cogli Angioini in Napoli, con la Sede Pontificia in Avignone e con Roma a lui ostile e quasi ribelle, se un Francese fosse divenuto imperatore, il Papa sarebbe rimasto in balia di Filippo; e perciò segretamente favorì l'elezione d'Arrigo di Lussemburgo (1): poscia l'incoraggiò a scen dere in Italia e lo benedisse.

(1) Cfr. PASQUALE VILLARI. Op. cit. cap. X, § VII, p. 482.

CAPITOLO VI.

L'avanzata d'Arrigo VII. - Incoronazione in Milano. - Ostilità dimostrata da' Fiorentini. - Epistola indirizzata loro da Dante. Esortazioni rivolte al novello Imperatore. Inutilità dell' impresa di costui. Sua morte a Buoncovento.

L'epistola di Dante, con biblica intonazione, sem brava la voce ammonitrice d'un profeta indirizzata agliItaliani, esortandoli a destarsi dal lungo sonno e a muovere concordi e devoti incontro ad Arrigo VII, novello Mosé suscitato da Dio per redimere e pacificare la Penisola. 202

Gli oppressi, i profughi, i combattenti per il trionfor della giustizia a lui si erano rivolti fiduciosi e uniti, credendolo il sognato e atteso liberatore. Egli cercava di far valere un'autorità, che credeva spettargli per divino e umano diritto; e si avanzava senz'armi con la missione di paciero. Allora si erano sopite le gelosie repubblicane, rivivevano le memorie latine, e il duce tedesco ravvivava tutte le speranze, senza destare nessun sospetto. Su di lui non pesava l'odio guelfo, giurato alla Casa Sveva, ed egli non recava con sè la brama di ere

ditarie vendette. Era già arrivato a Torino, festosamente accolto; ad Asti era stato incontrato dai signori lombardi, cui promise di non voler fare distinzione tra imperiali e popolani, per il comune bene e la civile concordia. Proseguendo il suo cammino, ch'era una trionfale avanzata, dal Piemonte era passato in Lombardia, e giunto in Milano, nella chiesa di Sant'Ambrogio, presenti i deputati dei vari comuni, il giorno dell'Epifania del 1311 prese la corona di ferro, e ricevette il giuramento di fedeltà da quasi tutte le città italiane, tranne Genova, Venezia e Firenze (1). Giorni appresso ebbe anche il personale omaggio di Dante (2).

Ad Arrigo parve una realtà il suo sogno imperiale, e mostrò con indulgente benevolenza i suoi propositi, << mettendo pace come fosse un angelo di Dio» (3), e facendosi acclamare come ristoratore della giustizia e della libertà (4).

I Fiorentini gli si dichiararono però ostili, non vollero saperne di lui, e per combatterlo si strinsero in lega con Roberto d'Angiò re di Napoli e con le città guelfe di Toscana e di Lombardia (5). L' Alighieri ne arse di sdegno, li chiamò « scelleratissimi > e dal Ca

(1) Cfr. PIETRO FRATICELLI, II Convito di Dante Alighieri e le Epistole, Op. cit. Illustrazione dell'Epistola VII, p. 460.

(2) Cfr. PIETRO FRATICELLI. Op. cit. p. 467, in nota. (3) Cfr. DINO COMPAGNI, La Cronaca Fiorentina, ecc. per cura di Domenico Carbone. Op. cit. lib. terzo, p. 90.

(4) Cfr. CESARE CANTÙ, Storia Universale. Op. cit. Tomo sesto, libro decimoterzo, cap. XVI, p. 699.

(5) Cfr. DINO COMPAGNI. Op. cit. ibid. p. 103 e seg. PASQUALE VILLARI. 1 primi due secoli della Storia di Firenze. Op. cit. cap. X, p. 485 e seg,

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