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vollero ingaggiare battaglia. L'Imperatore per altra via proseguì il suo cammino, respingendo vigorosamente tutti coloro coloro che dall'Incisa gli erano andati incontro per fermarlo. Il 19 settembre era già sotto le mura per assediare Firenze, e si attendò alla Badia di San Salvi, ove pose il suo quartiere generale. I cittadini, che non sapevano ancor nulla di ciò che era avvenuto del loro esercito, trovandosi sorpresi, corsero subito alle armi, e sotto i gonfaloni del popolo andarono alle mura, dove venne anche il vescovo, armato coi suoi preti. Arrigo non giudicò opportuno attaccarli, e questa fu la loro salvezza. Dopo due giorni, i militi che si erano mossi incontro all'Imperatore, per vie traverse tornarono in Firenze, dove arrivarono aiuti da Lucca, Siena, Pistoia, Bologna, dalla Romagna, da tutte le città della Lega. Arrigo VII, che aveva solo ottocento cavalieri tedeschi, mille italiani e buon numero di fanti, non potè far altro che dare il guasto alle campagne. I Fiorentini, sebbene in numero superiore di forze, se ne stettero sulla difensiva, non volendo dar battaglia. L'Imperatore però, dopo un mese d'accampamento, non osò assalirli: stanco poscia ed esausto, la notte d'Ognissanti se ne partì per la via di San Casciano e Poggibonsi, tornandosene a Pisa (1). Era malfermo in salute, senza denari, con pochi soldati; ma ciò non ostante non aveva perduto la speranza della vittoria. Iniziò processi contro i Fiorentini, che privò delle loro giurisdizioni; depose i loro giudici e notai, impose grosse taglie. Condannò poscia il re Roberto qual traditore dell'Impero: si alleò con Federigo di Sicilia e con i Genovesi, e si era proposto di

(1) Cfr. PIETRO FRATICELLI. Op. cit. cap. sesto 185. PASQUALE VILLARI. Op. cit. cap. X, p. 496 e seg.

andare contro Napoli, sebbene il Papa avesse minacciato la scomunica a chi osasse assalire quel regno, ritenuto feudo della Chiesa (1). Arrigo non vi badò. Mandò in Lombardia e in Germania per aver uomini e danari; e gli venne fatto di adunare cavalli e cavalieri di qua e di là dalle Alpi. Messe su anche un naviglio settanta galere gli apprestarono i Genovesi; cinquanta ne armò il re Federigo; venti i Pisani. Fidente nella nuova impresa, l'8 agosto 1313 partì per invadere il regno di Napoli. Si ammalò però di febbre, e dopo sedici giorni, il 24 dello stesso mese, moriva a Buonconvento, in provincia di Siena.

(1) Cfr. PASQUALE VILLARI, Op. cit. ibid. p. 497 e seg.

CAPITOLO VII.

Necessità della monarchia universale.

Il Sacro Romano Impero. Origine della potestà imperiale. - Peregrinazioni di Dante dopo la morte di Arrigo VII. - Dimora in Gubbio. Soggiorno nel Monastero di Fonte Avellana. - Il primo e il terzo trattato del Convito. Morte di Clemente V. Lettera dell' Alighieri ai cardinali italiani.

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Profondamente rattristò l'animo di Dante l'inattesa fine di Arrigo VII. La discesa di lui in Italia aveva ridestato grandi speranze, svecchiando e rinvigorendo la idea imperiale, che si sarebbe riaffermata con il ristabilimento dell'antica monarchia. Essa era indispensabile per il governo e la pace del mondo, e il popolo romano di ragione se n'era attribuito l'ufficio: Romanus populus de jure sibi adsciverit officium monarchiae, sive imperii (1). L'autorità del monarca dipendeva immediatamente da Dio: auctoritas monarchae, sive imperii, de

(1) Cfr. Opere minori di Dante Alighieri, ecc. con illustrazioni e note di Pietro Fraticelli. Vol. II. De Monarchia, settima edizione, liber secundus, § I, p. 314, Firenze. G. Barbèra, Edit.

pendet a Deo immediate (1); e come da un punto si biforcava la potestà di Pietro e di Cesare: velut a puncto bifurcatur Petri Caesarisque potestas (2).

Cotesta concezione storico-teologica del Sacro Romano Impero ispirò e produsse dopo il 1310 il De Monarchia, che divenne vessillo di lotta e arma di combattimento per il risorto ghibellinismo. Dante, senza teorizzare con postulati filosofici la sua dottrina politica, specificò e distinse partitamente il suo alto concetto, e in tre libri ne espose la trattazione, ch' è dottissima e profonda per copia di erudizione ed acutezza di ragionamenti.

L'attività umana mira alla prosperità calma e benefica dell'esistenza sociale; sicchè è manifesto che la pace universale è la sola sopra tutte le cose che possa recare agli uomini il benessere politico e civile. Per questo, quando nacque il Messia su i pastori si udì una voce che disse: Pace! (3). I celesti messaggeri sciolsero un inno di gloria a Dio, augurando pace agli uomini di buona volontà. La salutazione del Salvatore era un auspicio di pace: Pax vobis, ripetuto poscia apostolicamente dai suoi discepoli. Per assicurare però nel mondo la pace occorreva la Monarchia temporale, comunemente chiamata Impero.

Quando più cose sono ordinate ad uno scopo, conviene che una di esse le regoli e le regga. Se consideriamo l'uomo individuo, vediamo che in lui tutte le sue forze sono indirizzate al raggiungimento della propria

(1) Op. cit. liber tertius, § 1, p. 358.

(2) Cfr. Il Convito di Dante Alighieri e le Epistole. Op. cit. Epistola V, p. 442 e seg.

(3) Cfr. De Monarchia, liber primus. § V, p. 286.

felicità; e perciò la forza intellettuale è di tutte le altre regolatrice e regina. Anche nella casa il fine è di preparare la famiglia al ben vivere; ma uno soltanto bisogna che la guidi e provveda ai suoi bisogni, il quale si chiama padre di famiglia. Lo stesso avviene in un borgo di case, il fine del quale è un comodo soccorso di cose e di persone: e conviene che uno sia regolatore degli altri. Se no, mancherebbero i mutui rapporti e verrebbe meno la comunanza. Similmente in una città uno dovrà essere pure il reggimento, non solo nel diritto governo, ma anche nel perverso: non solum in recta politia, sed et in obliqua (1). Se questo non si facesse, non si conseguirebbe il fine della vita cittadina, e continue e gravi sarebbero le perturbazioni e le discordie. Nel medesimo stato troverebbesi un regno; e perciò per la maggiore sicurezza della sua tranquillità conviene che un solo lo governi. E giacchè è manifesto che tutta la generazione è ordinata per il raggiungimento d'un solo scopo, ch'è la propria felicità. è praticamente e moralmente necessario che uno soltanto ne regoli e regga le sorti, e costui deve chiamarsi monarca o imperatore. Così è chiaro che al benessere del mondo è necessaria la Monarca ossia l'Impero : Et sic patet, quod ad bene esse mundi, necesse est monarchiam esse, sive imperium (2). Ogni cosa sta bene, quando è secondo l'intenzione del primo agente, ch'è Dio. Il volere però di Lui è che ogni creatura rappresenti, per quanto è possibile, la divina somiglianza. Per questo fu detto: Facciamo l'uomo ad immagine e somiglianza nostra; e benchè non possa dirsi

(1) Cfr. Op. cit. lib. pr. § VII, p. 288.

(2) Cfr. Op. cit. ibid. Lo stesso concetto viene affermato nel Convito. (Cfr. Trattato quarto, capitolo IV, p. 256, ediz. cit.

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