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ogni paterna affezione ne confortano. Alla qual cosa dee ciascuno senza difficoltà divenire, leggendo quello che ne scrive Platone, uomo di celestiale ingegno, nel fine del primo libro del suo Timeo... E se Platone confessa sè più che alcuno altro avere del divino aiuto bisogno, io che debbo di me presumere, conoscendo il mio intelletto tardo, l'ingegno piccolo e la memoria labile? e spezialmente sottentrando a peso molto maggiore che a' miei omeri si convegna, cioè a spiegare l'artificioso te sto, la moltitudine delle storie e la sublimità dei sensi, nascosta sotto il poetico velo della Commedia del nostro Dante e massimamente ad uomini d'alto intendimento e di mirabile perspicacità, come universalmente solete. esser voi, signori fiorentini; certo, oltre ogni considerazione umana, debbo credere abbisognarmi. Adunque, acciò che quello ch'io debbo dire sia a onore e gloria dell'altissimo nome di Dio, e consolazione e utilità degli auditori, intendo avanti ch'io più oltre proceda, quanto più umilmente posso, ricorrere ad invocare il suo aiuto; molto più della sua benignità fidandomi, che d'alcuno mio merito...» (1).

Supplicata la celeste clemenza, riassunta e fatta propria la dottrina dantesca sull'interpetrazione della Commedia, il Boccaccio volse il memore pensiero all'Alighieri, ne rammentò la mirabile e agitatissima vita, dalla prima giovinezza fino al giorno estremo, in cui morendo riveva spiritualmente in un'esistenza immortale. Aveva dato meravigliosamente al mondo quello che arcanamente aveva ricevuto da Dio; e meglio che ai pagani imperatori gli spettava il soprannome di Divo.

(1) Cfr. Il Comento sopra la Comedia, op. cit. Lezione prima, p. 79 e seg.

Nella sua prima lezione ciò proclamò dalla cattedra il Boccaccio, lo fece comprendere con istupore all' attonito uditorio, iniziando l'apoteosi del Poeta divino.

Seguendo il metodo scolastico dei precedenti espositori, con quotidiana, solerte e diligentissima cura proseguì il suo commento sopra la Commedia. Lucidi e vivi erano i suoi riassunti proemiali, doviziosa l'erudizione, vasta la conoscenza delle varie discipline, acute e lucenti d'alta bellezza le interpetrazioni, sin dal primo verso del primo canto. Dopo aver chiarito quello che, secondo il senso letterale si poteva dimostrare, ne spiegava poscia il significato allegorico, nascosto « sotto la rozza corteccia delle parole » (1).

Dante, che esprime simbolicamente eccelse concezioni, costringe il lettore ad un forte lavoro; ma un giubilo ineffabile si sente quando s'è scoperto ciò che da lui fu occultato; per la qual cosa meritamente può dirsi il suo Poema « esser polisenso>> (2). Intorno al senso allegorico << si possono i savi esercitare, e intorno alla dolcezza testuale nudrire i semplici...» (3).

All'una cosa e all'altra mirava il Boccaccio, pensoso del popolo toscano, dei cittadini d'Italia, d'ogni libero spirito desioso di luce. Per il bene di tutti e il rinsaldamento delle credenze religiose e della fede si adoperava infaticabilmente nell'esposizione della Commedia, la Bibbia civile dei nuovi tempi, la guida sicura della coscienza nazionale. Appassionata n'era la cittadinanza fiorentina, mista allora di famiglie venute dai villaggi di Campi, di Certaldo, di Figghini, e dai vicini borghi di Galluzzo e di

(1) Cfr. Op. cit. Lezione quinta, p. 149.

(2) Cfr, Op. cit. ibid. p. 153.

(3) Cfr. Op. cit. ibid. p. 155.

Trespiano (1). Il popolo accorreva in Santo Stefano ad ascoltar Messer Giovanni, le cui letture erano una propaganda patriottica, un sapiente magistero di morale elevazione. Attraversava egli la prima Cantica con la fiaccola della scienza e dell'arte, fisso lo sguardo all'Italia e il pensiero rivolto al cielo. Dovette però arrestarsi, appena pervenuto al canto decimosettimo la vecchia infermità, affaticata dal quotidiano lavoro, verso la fine del 1374 non gli consentì d'andar più oltre. Colla sessantesima lezione (2) interruppe accoratamente il suo commento, e lasciò la cattedra dantesca di Santo Stefano, la prima a sorgere In Italia. Un anno dopo cessava di vivere nel paterno villaggio.

(1) Cfr, PARADISO, canto XVI, 49-54.

(2) Cfr. Op. cit. Vol. II, lezione sessantesima, p. 456 e seg.

CAPITOLO VI.

Epistola del Petrarca al Boccaccio. Diffusione della Commedia.
Il Commento di Francesco da Buti.
nuto Rambaldi da Imola. Altri interpetri.
Francia e in Germania.

Conclusione.

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L'esposizione di Benve-
L' Alighieri in.

L'opera rivendicatrice intrapresa dal Boccaccio per Dante, che ne precorse la glorificazione, sin dall'inizio era stata ammirata dal Petrarca, il quale aveva fatto plauso al grande Certaldese per il suo << sentimento di giustizia, di gratitudine, di ricordanza, e di filiale carità » (1) verso l' Alighieri, che anche lui amava e venerava, lietissimo di poterlo attestare allo stesso Boccaccio.

Non io pertanto vo' solamente portare in pace-gli scriveva— ma goder voglio ed applaudire che tu quell' astro, onde all'ingegno tuo piovve luce ed ardore a percorrere la bella via, per la quale a gran passi t'incammini alla gloria, esalti e celebri; e che alle lodi per tanto tempo a lui dal volgo largite e profuse, degne alfine di lui e di te succedano, e levinlo al cielo le lodi tue, delle

(1) Cfr. CORAZZINI FRANCESCO, Le lettere edite ed inedite di Messer Giovanni Boccaccio, op. cit. p. 57.

quali in tutto e per tutto io mi compiacqui. Chè come di cosiffatto preconio 1) egli è meritevole, così quel nobile officio massimamente a te si conviene: ed io quel carme (2) da te dettato in onor suo espressamente approvando, il poeta che celebrasti, a celebrare di tutto cuore teco mi unisco. Ma nella lettera, colla quale scusandoti tu l'accompagni, io scorgo con meraviglia che poco ancor mi conosci tu, cui di essere a fondo conosciuto io mi credeva. Tale adunque mi estimi tu, che delle lodi dei grandi io non mi piaccia, e non m'esalti in me stesso ? Credimi, amico. Non v' ha peste, onde io rifugga ed aborra più che dalla invidia. Ella è cosa tanto dalla mia natura aliena, che Dio scernitore dei cuori m'è testimonio non altro forse parermi nella vita a soppertare più grave del vedere il merito senza gloria e senza premio non già che io del danno mio mi quereli, o che la speranza del lucro mi tormenti; ma della pubblica sorte mi compiango, quando alle oscene arti le ricompense, che alle nobili si dovrebbero, io veggo conferite; sebbene io non ignori, che quantunque alle belle opere la gloria serva di sprone, pure secondo che i filosofi dicono, e sprone, e stimolo, e meta. e premio a se medesima è la virtù. Perchè peraltro ad un discorso tu mi chiamasti, cui venuto io non sarei di mia voglia, piacemi di non uscirne senz'avere chiarita intorno a quel Poeta a te, e per tuo mezzo anche ad altri la mia vera sentenza, la quale non solamente falsa, ma dolosa e malignamente inventata nel volgo si sparse. Imperocchè i nemici miei dicono ch' io l'odio e lo disprezzo, per pormi di ciò cagione innanzi al volgo, a cui egli è accettissimo.

Nuova specie d' iniquità, ed arte mirabile di nuocere altrui. A costoro invece mia risponda il vero. E primieramente si noti com' io mai non ebbi ragione alcuna d' odiare cotal' uomo, che solo una volta negli anni della mia fanciullezza mi venne veduto. All'avo e al padre mio visse egli compagno, ma dell' avo più giovane, più vecchio del padre, col quale in un giorno stesso e per le stesse cagioni di civile discordia fu dalla patria cacciato in bando. E

(1) Lode.

(2) Carme col quale il Boccaccio accompagnò l'esemplare della Divina Commedia inviato al Petrarca (Cfr. CORAZZINI FRANCESCO. Op. cit. p. 53 e seg.

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