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Pervenuti a questo punto, passo passo, come si è visto, ci si presenta un altro documento e della massima importanza, malgrado sia stato impugnato da molti. È questo la famosa lettera diretta da Dante a Moroello Malaspina, la quale ha non piccola parte nel nostro studio, in quanto serve a determinare meglio la questione, e pone un po' d'ordine nei fatti. Quest'epistola non sarebbe altro che la presentazione d'un componimento, al quale accennano le ultime parole di essa. Il componimento fu ravvisato dal Witte nella canzone << Amor dacchè...». Essa infatti è quella tra le canzoni di Dante, che presenta maggiori somiglianze con la lettera, e somiglianze tali da non far sorgere alcun dubbio circa il ravvicinamento fatto. Per non distrarre l'attenzione le verrò rilevando in nota. (1)

(1) Quale fosse la scena del dramma, tanto la canzone che l'epistola lo determinano chiaramente, quasi con le stesse parole. Quel dramma si svolse lungo il corso dell'Arno, nella valle del fiume per antonomasia: <«< Cum primum pedes juxta Sarni fluenta securus et incautus defigerem...».

Cosi m'hai concio, Amore, in mezzo l'Alpi,

Nella valle del fiume,

Lungo il qual sempre sopra me sei forte.
61-63.

E quell'apparizione venne come un fulmine a ciel sereno, quando il Poeta meno se l'aspettava: «Subito heu! mulier, ceu fulgur descendens, apparuit... ».

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La descrizione dell'impressione che Dante ricevette di quella donna, quando gli apparve, e di quello che poi segui, risponde a pennello in tutti e due i luoghi: «Oh quam in ejus apparitione obstupui! Sed stupor subsequentis tonitrui terrore cessavit. Nam sicut diurnis corru

La questione però che s'agita e s'agitò da molto tempo, è circa l'autenticità dell'epistola. Dobbiamo ritenerla genuina, vale a dire di Dante, ovvero dobbiamo considerarla una sciocca falsificazione, come qualcuno la disse? La scoperta dell'ora famoso codice vaticano-palatino 1729, (1) il quale

scationibus illico succedunt tonitrua, sic, inspecta flamma pulchritudinis hujus, amor terribilis et imperiosus me tenuit »>.

E mostro poi la faccia scolorita,

Qual fu quel tuono che mi giunse addosso:
Chè se con dolce riso è stato mosso,

Lunga fiata poi rimane oscura.

56-59.

Fu dunque come un turbine quella passione, che lo sommosse nelle intime fibre, e fu dolce da principio come un sorriso, che rallegra l'animo sconsolato dopo il dolore.

Anche la potenza e il fascino che la donna esercitava sul cuore di Dante, è ritratto quasi con le stesse parole nell'epistola e nella canzone: « Et denique, ne contra se amplius anima rebellaret, liberum meum ligavit arbitrium, ut non quo ego, sed quo ille vult, me verti oporteat ».

Quale argomento di ragion raffrena,

Ove tanta tempesta in me si gira?

26-27.

E le parole che seguono, «< regnat itaque amor in me, nulla refragante virtute...», e quell'altre che precedono, «quicquid enim contrarium fuerat intra me vel occidit, vel expulit, vel ligavit », non sono ben riprodotte nella prima stanza?

E mostri me d'ogni virtute spento.

Ma chi mi scuserà, s'io non so dire

Ciò che mi fai sentire?

Chi crederà ch'io sia omai si colto?

Le somiglianze, si vede bene, sono tali e tante da non poter sorgere, come dissi, alcun dubbio circa il ravvicinamento fatto dei due componimenti.

(1) Il contenuto del codice consta di tre parti distinte. La prima (cc. 1o-29b) contiene le dodici egloghe del Petrarca, minutamente po

insieme ad altre otto epistole contiene quella a Moroello Malaspina, fu causa di molte polemiche in pro e contro, dove si segnalarono maggiormente il Torri, il Witte, il Fraticelli, il Wegele, il Todeschini, il Bartoli, il Del Lungo, il quale affermò recisamente che quand'anche questa e le altre, per esempio quella al Cardinale da Prato, si potessero attribuire a Dante per ragioni interne, egli avrebbe sempre domandato la prova di argomenti storici inoppugnabili. Ma io non intendo rifare la storia di questi studi.

I due ultimi che ritornarono di proposito su tale argomento, furono N. Zingarelli (1) e O. Zenatti, (2) i quali partirono da punti di vista opposti. Chi si volesse formare un concetto della questione, potrebbe leggere con profitto il lavoro dello Zenatti, il quale sostiene con belle e giuste prove l'autenticità dell'epistola. Quindi, senza ch'io stia a ripetere quanto ogni studioso può ivi trovare, affronterò in parte la questione, cercando di rafforzare o di aggiungere nuove prove e nuovi argomenti a quelli già addotti da chi se ne occupò.

Tutti i suoi sforzi, se ne dovette avvedere lo Zingarelli, erano riusciti inutili dietro la scoperta fatta dal Valdelli; i suoi argomenti dovevano cadere inesorabilmente. La lettera del Boccaccio, dalla quale egli diceva sarebbe stata tratta la dantesca, non era, in ultima analisi, che un cen

stillate; la seconda (cc. 33a-55 b) i tre libri del De Monarchia di Dante; la terza (cc. 56a-61b) contiene nove epistole, che io ritengo tutte di Dante. Di questo codice vedi la descrizione e le notizie che ne dà O. Zenatti nel lavoro cit., pag. 370.

Il titolo dell'epistola che ora c'interessa, dice: Scribit Dantes domino Maroello marchionj malaspine.

(1) L'epistola di Dante a Moroello Malaspina, in Rassegna critica della lett. ital., IV (1899), pp. 49-58, e anche nel suo volume Dante, pp. 222-223.

(2) Loc. cit., pp. 430-62.

(3) Bullettino della Soc. Dant., N. S., vol. VII, pp. 59-68.

SANTI. Il Canzon. di Dante Alighieri, II.

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tone, di cui una delle fonti precipue era Apuleio. La « prova massiccia » del critico troppo spinto e baldanzoso, veniva scalzata fin dalle fondamenta senza speranza di poter risorgere. E ammessa una simile cosa, che cioè il Boccaccio per quella sua lettera non si era fatto scrupolo di copiare liberamente da Apuleio, non poteva rimanere più alcuna difficoltà, nè poteva più sembrare stranezza ch'egli si fosse valso liberamente dell'epistola dantesca. Quando un autore si fa lecito d'introdurre nell'opera sua passi tolti da tale o tal altro scrittore, vuol dire che lo scrupolo della proprietà letteraria non lo conosce.

Ma, come osservò giustamente il Valdelli, v'è qualche cosa dell'epistola dantesca trasportata tale e quale dal Boccaccio nella propria, che per la sostanza non torna del tutto a proposito. Ciò, è vero, potrebbe verificarsi anche nel caso che fosse stata presa da Apuleio solo una parte della lettera, per la difficoltà di uniformarsi allo scritto e al modo di concepire altrui; ma, trattandosi d'un passo solamente, se colui che se ne vale non è privo d'ingegno e d'accorgimento, saprà ben trovare la maniera d'introdurlo nel posto cui l'ha destinato, in modo che quadri con tutto il resto. Se invece i passi imitati o introdotti, come nel caso nostro, sono più, allora, s'intende, per rendere uniforme la materia, le difficoltà crescono. Per quanto uno si studi di collegarli in un tutto organico, non sempre vi potrà riuscire a perfezione. Molte volte dovrà apparire lo sforzo sostenuto, com'è inevitabile per chiunque compone con materia d'altri. E così, senza però accusarlo d'indegno plagio o fargliene grave carico, dovette accadere al Boccaccio. Egli non riuscì a collegare (e ciò provenne per distrazione, essendo leggerissima e quasi inavvertita la stonatura) il passo dell' epistola dantesca con quello di Apuleio. (1)

(1) Si veda a proposito il lavoro cit. dello ZENATTI, a pp. 436-37.

Ma chi ha un po' di buon gusto, si sarà avveduto da sè che nell'epistola del Boccaccio « Mavortis miles extrenue...», i passi della lettera al Malaspina, ivi introdotti, rappresentano la parte più bella del lavoro; mentre il resto (compreso ciò che fu imitato da Apuleio), sebbene scritto con un latino studiosamente elaborato, presenta un'artificiosa ricercatezza di vocaboli e di maniere, di frasi e di espressioni: Il periodo stesso è contorto, lungo e oscuro; non è agile e spigliato come quello dell'epistola a Moroello. È appunto tutto il contrario di quanto disse lo Zingarelli, affermando che se il Boccaccio avesse incorporato nella sua la lettera di Dante, avrebbe fatto come un pittore, che dipingesse un quadro per metterci la brutta figura trovata su un cartone... o come uno scultore, che da un vaso fabbricasse una statua

Riconosciuto questo fatto e compresa quella leggera stonatura rilevata dal Valdelli (evidente e giusta, se ben si osserva), la quale ci autorizza ad ammettere una doppia imitazione, io mi convinco di più per ritenere che l'epistola del codice vaticano di nessun altro possa essere, se non di Dante; perchè certo il Boccaccio non si sarebbe indotto ad imitarla, se non avesse saputo che essa apparteneva a un uomo superiore a lui per ingegno.

Se non che una prova niente affatto trascurabile, mi viene data dal modo stesso nel quale l'epistola è trascritta. Essa si trova col nome di Dante, « scribit Dantes domino Maroello marchionj malaspine », in mezzo ad altre epistole, come quella agli scelleratissimi fiorentini, all' imperatore Arrigo VII, ai principi e ai popoli d'Italia ecc., indubbiamente sue; epistole, le quali, quasi a corollario di un'altr' opera pure latina dell'Alighieri, si fanno subito seguire una dopo l'altra, e a volte senza segni di distinzione, ai tre libri del De Monarchia. Chi le trascrisse, fosse o no Francesco da Montepulciano, non aveva certo l'intenzione d'ingannare.

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