Sayfadaki görseller
PDF
ePub

Se non per lui, per lui ch'all'uom è tutto:

Sola discolpa al fato,

Che noi mortali in terra

Pose a tanto patir senz'altro frutto;
Solo per cui talvolta,

Non alla gente stolta, al cor non vile
La vita della morte più gentile.

Per còr le gioie tue, dolce pensiero,
Provar gli umani affanni,

E sostener molt'anni,

Questa vita mortal, fu non indegno,
Ed ancor tornerei,

Così qual son de' nostri mali esperto,

Verso un tal segno a incominciare il corso: Che tra le sabbie e tra il vipereo morso, Giammai finor si stanco

Per lo mortal deserto

Non venni a te, per queste nostre pene
Vincer non mi paresse un tanto bene.
Che mondo mai, che nova
Immensità, che paradiso è quello

Là dove spesso il tuo stupendo incanto
Parmi innalzar! dov' io,

Sott'altra luce che l'usata errando,

Il mio terreno stato

E tutto quanto il ver pongo in obblio!
Tali son, credo, i sogni

Degl'immortali. Ah! finalmente un sogno
In molta parte onde si abbella il vero
Sei tu dolce pensiero;

Sogno e palese error. Ma di natura,
Infra i leggiadri errori,

Divina sei, perchè si viva e forte,
Che incontra al ver tenacemente dura.
E spesso al ver si degua,

Nè si dilegua pria, che in grembo a morte.
E tu per certo, o mio pensier, tu solo
Vitale ai giorni miei,

Cagion diletta d'infiniti affanni.

Meco sarai per morte a un tempo spento: Ch'a vivi segno dentro l'alma io sento Che in perpetuo signor dato mi sei.

Altri gentili inganni

Soleami il vero aspetto

Più sempre infie volir. Quanto più torno

A riveder colei,

Della qual teco ragionando io vivo,

Cresce quel gran diletto,

Cresce quel gran delirio, ond'io respiro.

Angelica beltade!

Parmi ogni più bel volto, ovunque lo miro,

Quasi una finta imago

Il tuo volto imitar. Tu sola fonte

D'ogni altra leggiadria,

Sola vera beltà parmi che sia.

Da che ti vidi pria.

Di qual mia seria cura ultimo obbietto Non fosti tu? quanto del giorno è scorso, Ch'io di te non pensassi? ai sogni miei La tua sovrana imago

Quante volte mancò? Bella qual sogno,
Angelica sembianza,

Nella terrena stanza,

Nell'alte vie dell'universo intero,

Che chiedo io mai, che spero

Altro che gli occhi tuoi veder più vago?
Altro più dolce aver che il tuo pensiero?

XXVII. Amore e morte.

Muor giovine colui ch'al ciel è caro.

MENANDRO.

Fratelli, a un tempo stesso, Amore e Morte

Ingenerò la sorte.

Come quaggiù sì belle

Altre il mondo non ha, non han le stelle.

Nasce dall'uno il bene,

Nasce il piacer maggiore

Che per lo mar dell'essere si trova;

L'altra ogni gran dolore,

Ogni gran male annulla.

Bellissima fanciulla,

Dolce a veder, non quale

La si dipinge la codarda gente,

Gode il fanciullo Amore

Accompagnar sovente;

E sorvolano insiem la vita mortale,

Primi conforti d'ogni saggio core.
Nè cor fu mai più saggio

Che percosso d'amor, nè mai più forte
Sprezzò l'infausta vita,

Nè per altro signore

Come per questo a perigliar fu pronto:
Ch'ove tu porgi alta,

Amor, nasce il coraggio,

O si ridesta; e sapiente in opre,
Non in pensiero, siccome suole,
Divien l'umana prole.

Quando novellamente
Nasce nel cor profondo

Un amoroso affetto,

Languido e stanco insiem con esso in petto

Un desiderio di morir si sente:

Come, non so: ma tale

D'amor vero e possente è il primo effetto.

Forse gli occhi spaura

Allor questo deserto: a se la terra

Forse il mortale inabitabil fatta

Vede omai senza quella

Nova, sola, infinita

Felicità che il suo pensier figura:

Ma per cagion di lei grave procella
Presentendo in suo cor, brama quïete,
Brama raccorsi in porto

Dinanzi al fier disio,

Che già, rugghiando, intorno intorno oscura.
Poi quando tutto avvolge

[ocr errors]

La formidabil possa,

E fulmina nel cor l'invitta cura.
Quante volte implorata

Con desiderio intenso,

Morte, sei tu dell'affannoso amante!
Quante la sera, e quante

Abbandonando all'alba il corpo stanco,
Sè beato chiama, s'indi giammai
Non rilevasse il fianco,

Nè tornasse a veder l'amara luce!

E spesso al suon della funebre squilla, Al canto che conduce

La gente morta al sempiterno obblio, Con più sospiri ardenti

Dall'imo petto invidio colui

Che tra gli stenti ad abitar sen giva. Fin dalla negletta plebe,

L'uom della villa, ignaro

D'ogni virtù che da saper deriva,

Fin la donzella timidetta e schiava,
Che già di morte al nome

Senti rizzar le chiome,

Osa alla tomba, alle funeree bende

Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,
E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende,
Tanto alla morte inclita

D'amor la disciplina. Anco sovente,

« ÖncekiDevam »