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Ital 85817,10

17 al 8581·7:20

HARVARD COLLEGE LIBRARY

FROM THE LIBRARY OF
ROBERT MATTESON JOHNSTON
SEPT. 10, 1920

I. All Italia.

O patria mia, vedo le mura e gli archi
E le colonne e i simulacri e l'erme

Torri degli avi nostri,

Ma la gloria non vedo,

Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi

I nostri padri antichi. Or fatta inerme,
Nuda la fronte e nudo il petto mostri.

Ohimè quante ferite,

Che lividor, che sangue! Oh qual ti veggio,
Formosissima donna! Io chiedo al cielo
E al mondo: dite, dite,

Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Si che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,
Nascondendo la faccia

Tra le ginocchia, e piange,

Piangi, che ben hai donde, Italia mia,
Le genti a vincer nata,

E nella fausta sorte e nella ria.

Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
Mai non potrebbe il pianto

Adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
Chè fosti donna, or sei povera ancella.
Chi di te parla o scrive,

Che, rimembrando il tuo passato vanto,
Non dica: Già fu grande, or non è quella!
Perchè, perchè? dov'è la forza antica,
Dove l'armi e il valore e la costanza?
Chi ti discinse il brando?

Chi ti tradi? qual arte o qual fatica

O qual tanta possanza

Valse a spogliarti il manto e l'auree bende?
Come cadesti o quando

Da tanta altezza in così basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
Nessun de' tuoi? L'armi, qua l'armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.

Dammi o ciel, che sia foco

Agl'italici petti il sangue mio.

Dove sono i tuoi figli? Odo suon d'armi

E di carri e di voci e di timbalii:

In estranee contrade

Pugnano i tuo figliuoli,

Attendi, Italia, attendi. Io veggio, o parmi, Un fluttuar di fanti e di cavalli,

E fumo e polve, e luccicar di spade
Come tra nebbia lampi.

Nè ti conforti? e i tremebondi lumi
Piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi

L'itala gioventude? O numi, o numi!
Pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
Non per li patrii lidi e per la pia
Consorte e i figli cari,

Ma da nemici altrui

Per altra gente, e non può dir morendo: Alma terra natia,

La vita che mi desti ecco ti rendo. Oh venturose e care e benedette

L'antiche età, che a morte

Per la patria correan le genti a squadre; E voi sempre onorate e gloriose,

O tessaliche strette,

Dove la Persia e il fato assai men forte
Fu di poch'alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l'onda
E le montagne vostre al passeggiere
Con indistinta voce

Narrin siccome tutta quella sponda
Coprir le invitte schiere

De' corpi ch'alla Grecia eran devoti.

Allor, vile e feroce,

Serse per l'Elesponto si fuggia
Fatto ludibrio agli ultimi nepoti;

E sul colle d'Antela, ove morendo
Si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide (1) salia,

Guardando l'etra e la marina e il suolo.
E di lagrime sparse ambe le guance,
E il petto ansante, e vacillante il piede,
Toglieasi in man la lira:

Beatissimi voi,

Ch'offriste il petto alle nemiche lancie
Per amor di costei ch'al Sol vi diede;
Voi che la Grecia cole, e il mondo ammira.
Nell'armi e nei perigli

(1) Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone si introduce a poetare, cioè da Simonide, tenuto dall'antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che più rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell' undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell' ultima strofa. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d'altra parte riguardando alle qualità della materia per sè medesima, io non credo che mai si trovasse argomento più degno di poema lirico, nè più fortunato di questo che fu scelto, o più veramente sortito, da Simonide. Perocchè se l'impresa delle Termopile fa tanta forza a noi che siamo stranieri verso quelli che l'operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lagrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitrè secoli dopo ch'ella è seguita; abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere

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