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Odo suonar nelle romite stanze
L'arguto canto: a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ai ma ritorna
Tosto al ferreo sopor, ch'è fatto estraneo
Ogni moto soave al petto mio.

O cara Luna, al cui tranquillo raggio
Danzan le lepri nelle selve, e duolsi
Alla mattina il cacciator, che trova
L'orme intricate e false, e dai covili
Error vario lo svia: salve, o benigna
Delle notti reina. Infesto scende

Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro
A deserti edifici, in su l'acciaro
Del pallido ladron ch'a teso orecchio
Il fragor delle rote e de cavalli

Da lungi osserva o il calpestio de' piedi
Sulla tacita via; poscia improvviso
Col suon delle armi e con la rauca voce
E col funereo ceffo il core agghiaccia
Al passaggier, cui semivivo e nudo

Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre
Per le contrade cittadine il bianco,
Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi
Va radendo le mura e la secreta
Ombra seguendo, e resta e si spaura
Delle ardenti lucerne e degli aperti
Balconi. Infesto alle malvage menti,
A me sempre benigno il tuo cospetto
Sarà per queste spiaggie, ove non altro
Che lieti colli e spaziosi campi

M'apri alla vista. Ed ancor io soleva,
Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso
Raggio accusar negli abitati lochi,
Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando
Scopriva umani aspetti al guardo mio
Or sempre loderollo, o ch'io ti miri
Veleggiar tra le nubi, o che serena
Dominatrice dell'etereo campo,
Questa flebil riguardi umana sede.
Me spesso rivedrai solingo e muto
Errar pe' boschi e per le verdi rive,
O seder sovra l'erbe, assai contento
Se core e lena a sospirar m'avanza.

XVII. Consalvo.

Presso alla fin di sua dimora in terra,
Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo
Del suo destino, or già non più, che a mezzo
Il quinto lustro, gli pendea sul capo
Il sospirato obblio. Qual da gran tempo,
Così giacea nel funeral suo giorno
Dai più diletti amici abbandonate;
Ch'amico in terra a lungo andar nessuno
Resta a colui che della terra è schivo.
Pur gli era al fianco, da pietà condotta
A consolare il suo deserto stato,

Poesie. LEOPARDI.

Quella che sola e sempre eragli a mente,
Per divina beltà famosa Elvira;

Conscia del suo poter, conscia che un guardo
Suo lieto un detto d'alcun dolce asperso,
Ben mille volte ripetuto e mille
Nel costante pensier, sostegno e cibo
Esser solea dell'infelice amante;
Benchè nulla d'amor parola udita
Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma
Era del gran desio stato più forte
Un sovrano timore. Così l'avea

Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore.
Ma ruppe alfin la morte il nodo antico
Alla sua lingua: poichè certi i segni
Sentendo di quel dì che l'uom discioglie,
Lei, già mossa per partir, presa per mano,
E quella man bianchissima stringendo,
Disse tu parti, e l'ora omai ti sforza;
Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda,
Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rende
Qual maggior grazia mai delle tue cure
Dar possa il labbro mio. Premio daratti
Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende,
Impallidia la bella, e il petto anelo
Udendo lo si fea: chè sempre stringe
All'uom il cor dogliosamente, ancora
Ch'estranio sia, che si diparte, e dice
Addio per sempre. E contradditor voleva,
Dissimulando l'apprezzar del fato,
Al moribondo, Ma il suo dir prevenne

Quegli, e soggiunse: desiata, e molto,
Come sai ripregata a me discende,
Non temuto, la morte, e lieto apparmi
Questo feral mio dì. Pesami, è vero,

Che te perdo per sempre. Ohimè per sempre
Parto da te! Mi si divide il core

In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, Nè la tua voce udrò! Dimmi: mia pria Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi Potrò del dono, io semispento, a cui Straniera man le l'abbra oggi fra poco Eternamente chiuderà. Ciò detto Con un sospiro, all'adorata destra Le fredde labbra supplicando affisse. Stette sospesa e pensierosa in atto La bellissima donna; e fiso il guardo, Di mille vezzi sfavillante, in quello Tenea dell' infelice, ove l'estrema Lacrima rilucea. Nè dielle il core Di sprezzar la dimanda e il mesto addio Rinacerbir col niego; la vinse Misericordia dei ben noti ardori. E quel volto celeste, e quella bocca, Già tanto desiata, e per molt'anni Argomento di sogno e di sospiro, Dolcemente appressando al volto afflitto E scolorato dal mortale affanno,

Più baci e più, tutta benigna e in vista
D'alta pietà, su le convulse labbra,
Del trepido, rapito amante impresse.
Che divenisti allor? quali appariro
Vita, morte, sventura agli occhi tuoi,
Fuggitivo Consalvo? Egli la mano,
Ch'ancor tenea, della diletta Elvira
Postasi al cor, che gli ultimi battea
Palpiti della morte e dell'amore,

Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono
In sulla terra ancor; ben quelle labbra
Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo!
Ahi, vision d'estinto, o sogno, o cosa
Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira,
Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi
Non ti fu l'amor mio per alcun tempo;
Non a te, non altrui; che non si cela
Vero amore della terra. Assai palese
Agli atti, al volto shigottito, agli occhi,
Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre
Muto sarebbe l'infinito affetto

Che governa il cor mio, se non l'avesse
Fatto ardito il morir. Morrò contento
Del mio destino omai, nè più mi dolgo
Ch'aprii le luci al dì, non vissi indarno,
Poscia che quella bocca alla mia bocca
Premer fu dato. Anzi felice estimo

La sorte mia. Due cose belle ha il mondo:
Amore e morte. All'una il ciel mi guida
In sul fior dell'età; e nell'altro, assai

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