Odo suonar nelle romite stanze L'arguto canto: a palpitar si move Questo mio cor di sasso: ai ma ritorna Tosto al ferreo sopor, ch'è fatto estraneo Ogni moto soave al petto mio.
O cara Luna, al cui tranquillo raggio Danzan le lepri nelle selve, e duolsi Alla mattina il cacciator, che trova L'orme intricate e false, e dai covili Error vario lo svia: salve, o benigna Delle notti reina. Infesto scende
Il raggio tuo fra macchie e balze o dentro A deserti edifici, in su l'acciaro Del pallido ladron ch'a teso orecchio Il fragor delle rote e de cavalli
Da lungi osserva o il calpestio de' piedi Sulla tacita via; poscia improvviso Col suon delle armi e con la rauca voce E col funereo ceffo il core agghiaccia Al passaggier, cui semivivo e nudo
Lascia in breve tra' sassi. Infesto occorre Per le contrade cittadine il bianco, Tuo lume al drudo vil, che degli alberghi Va radendo le mura e la secreta Ombra seguendo, e resta e si spaura Delle ardenti lucerne e degli aperti Balconi. Infesto alle malvage menti, A me sempre benigno il tuo cospetto Sarà per queste spiaggie, ove non altro Che lieti colli e spaziosi campi
M'apri alla vista. Ed ancor io soleva, Bench'innocente io fossi, il tuo vezzoso Raggio accusar negli abitati lochi, Quand'ei m'offriva al guardo umano, e quando Scopriva umani aspetti al guardo mio Or sempre loderollo, o ch'io ti miri Veleggiar tra le nubi, o che serena Dominatrice dell'etereo campo, Questa flebil riguardi umana sede. Me spesso rivedrai solingo e muto Errar pe' boschi e per le verdi rive, O seder sovra l'erbe, assai contento Se core e lena a sospirar m'avanza.
Presso alla fin di sua dimora in terra, Giacea Consalvo; disdegnoso un tempo Del suo destino, or già non più, che a mezzo Il quinto lustro, gli pendea sul capo Il sospirato obblio. Qual da gran tempo, Così giacea nel funeral suo giorno Dai più diletti amici abbandonate; Ch'amico in terra a lungo andar nessuno Resta a colui che della terra è schivo. Pur gli era al fianco, da pietà condotta A consolare il suo deserto stato,
Quella che sola e sempre eragli a mente, Per divina beltà famosa Elvira;
Conscia del suo poter, conscia che un guardo Suo lieto un detto d'alcun dolce asperso, Ben mille volte ripetuto e mille Nel costante pensier, sostegno e cibo Esser solea dell'infelice amante; Benchè nulla d'amor parola udita Avess'ella da lui. Sempre in quell'alma Era del gran desio stato più forte Un sovrano timore. Così l'avea
Fatto schiavo e fanciullo il troppo amore. Ma ruppe alfin la morte il nodo antico Alla sua lingua: poichè certi i segni Sentendo di quel dì che l'uom discioglie, Lei, già mossa per partir, presa per mano, E quella man bianchissima stringendo, Disse tu parti, e l'ora omai ti sforza; Elvira, addio. Non ti vedrò, ch'io creda, Un'altra volta. Or dunque addio. Ti rende Qual maggior grazia mai delle tue cure Dar possa il labbro mio. Premio daratti Chi può, se premio ai pii dal ciel si rende, Impallidia la bella, e il petto anelo Udendo lo si fea: chè sempre stringe All'uom il cor dogliosamente, ancora Ch'estranio sia, che si diparte, e dice Addio per sempre. E contradditor voleva, Dissimulando l'apprezzar del fato, Al moribondo, Ma il suo dir prevenne
Quegli, e soggiunse: desiata, e molto, Come sai ripregata a me discende, Non temuto, la morte, e lieto apparmi Questo feral mio dì. Pesami, è vero,
Che te perdo per sempre. Ohimè per sempre Parto da te! Mi si divide il core
In questo dir. Più non vedrò quegli occhi, Nè la tua voce udrò! Dimmi: mia pria Di lasciarmi in eterno, Elvira, un bacio Non vorrai tu donarmi? Un bacio solo In tutto il viver mio? Grazia ch'ei chiegga Non si nega a chi muor. Nè già vantarmi Potrò del dono, io semispento, a cui Straniera man le l'abbra oggi fra poco Eternamente chiuderà. Ciò detto Con un sospiro, all'adorata destra Le fredde labbra supplicando affisse. Stette sospesa e pensierosa in atto La bellissima donna; e fiso il guardo, Di mille vezzi sfavillante, in quello Tenea dell' infelice, ove l'estrema Lacrima rilucea. Nè dielle il core Di sprezzar la dimanda e il mesto addio Rinacerbir col niego; la vinse Misericordia dei ben noti ardori. E quel volto celeste, e quella bocca, Già tanto desiata, e per molt'anni Argomento di sogno e di sospiro, Dolcemente appressando al volto afflitto E scolorato dal mortale affanno,
Più baci e più, tutta benigna e in vista D'alta pietà, su le convulse labbra, Del trepido, rapito amante impresse. Che divenisti allor? quali appariro Vita, morte, sventura agli occhi tuoi, Fuggitivo Consalvo? Egli la mano, Ch'ancor tenea, della diletta Elvira Postasi al cor, che gli ultimi battea Palpiti della morte e dell'amore,
Oh, disse, Elvira, Elvira mia! ben sono In sulla terra ancor; ben quelle labbra Fur le tue labbra, e la tua mano io stringo! Ahi, vision d'estinto, o sogno, o cosa Incredibil mi par. Deh quanto, Elvira, Quanto debbo alla morte! Ascoso innanzi Non ti fu l'amor mio per alcun tempo; Non a te, non altrui; che non si cela Vero amore della terra. Assai palese Agli atti, al volto shigottito, agli occhi, Ti fu: ma non ai detti. Ancora e sempre Muto sarebbe l'infinito affetto
Che governa il cor mio, se non l'avesse Fatto ardito il morir. Morrò contento Del mio destino omai, nè più mi dolgo Ch'aprii le luci al dì, non vissi indarno, Poscia che quella bocca alla mia bocca Premer fu dato. Anzi felice estimo
La sorte mia. Due cose belle ha il mondo: Amore e morte. All'una il ciel mi guida In sul fior dell'età; e nell'altro, assai
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