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E confuso il desio, men loco avesse
Al travagliarne il cor. Così de' bruti
La progenie infinita, a cui pur solo,

Nè men vano che a noi, vive nel petto
Desio d'esser beati; a quello intenta

Che a lor vita è mestier, di noi men tristo
Condur si scopre e men gravoso il tempo,
Nè la lentezza accagionar dell'ore.

Ma noi, che il viver nostro all'altrui mano
Provveder commettiamo, una più grave
Necessità, cui provveder non puote
Altri che noi, già senza tedio e pena
Non adempiam: necessitate, io dico,
Di consumar la vita: improba, invitta
Necessità, cui non tesoro accolto,
Non di greggie dovizia, o pingui campi,
Non aula puote e non purpureo manto
Sottrar l'umana prole. Or s'altri, a sdegno
I voti anni prendendo, e la superna
Luce odiando, l'omicida mano,

I tardi fati a prevenir condotto,

In sè stesso non torce; al duro morso
Della brama insanabile che invano
Felicità richiede, esso da tutti
Lati cercando, mille inefficaci
Medicine procaccia, onde quell' una
Cui natura apprestò, mal si compensa.
Lui delle vesti e delle chiome il culto
E degli atti e dei passi, e i vani studi
Di cocchi e di cavalli e le frequenti

Sale, e le piazze romorose, e gli orti;
Lui giochi e cene e invïdiate danze
Tengon la notte e il giorno; a lui dal labbro
Mai non si parte il riso, ahi! ma nel petto,
Nell'imo petto, grave salda immota

Come colonna adamantina, siede

Noia immortale incontro a cui non puote
Vigor di giovanezza, e non la crolla
Dolce parola di rosato labbro,

E non lo sguardo tenero, tremante,
Di due nere pupille, il caro sguardo,
La più degna del ciel cosa mortale.
Altri, quasi al fuggir vôlto la trista
Umana sorte in cangiar terre e climi
L'età spendendo, e mari e poggi errando,
Tutto l'orbe trascorre, ogni confine
Degli spazi che all' uom, negl' infiniti
Campi del tutto, la natura aperse,
Peregrinando aggiunge. Ahi, ahi! s'asside
Su l'alte prue la negra cura, e sotto
Ogni clima, ogni ciel si chiama indarno
Felicità; vive tristezza e regna.

Havvi chi le crudeli opre di Marte

Si elegge a passar l'ore, e nel fraterno
Sangue la man tinge per ozio; ed avvi
Chi d'altrui danni si conforta, e pensa
Con far misero altrui far sè men tristo,
Sì che nocendo usar procaccia il tempo.
E che virtude o sapienza ed arti
Perseguitando; e chi la propria gente
Conculcando e l'estrane, o di remoti

Lidi turbando la quiete antica
Col mercatar, con l'armi e con le frodi,
La destinata, sua vita consuma.
Te più mite desio, cura più dolce
Regge, nel fior di gioventù, nel bello
April degli anni, altrui giocondo e primo
Dono del ciel, ma grave, amaro, infesto
A chi patria non ha. Te punge e move
Studio de' carmi e di ritrar parlando
Il bel che raro e scarso e fuggitivo
Appar nel mondo, e quel, che più benigna
Di natura e del ciel, fecondamente
A noi la vaga fantasia produce,

E il nostro proprio error. Ben mille volte
Fortunato colui che la caduca

Virtù del immaginar non perde

Per volger d'anni; a cui serbare eterna
La gioventù del cor diedero i fati;
Che nella ferma e nella stanca etade,
Così come solea nell'età verde,

In suo chiuso pensier natura abbella,
Morte, deserto avviva. A te conceda
Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo
La favilla che il petto oggi si scalda,
Di poesia canuto amante. Io tutti
Della prima stagione i dolci inganni
Mancar già sento, dileguar dagli occhi
Le dilettose immagini, che tanto
Amai, che sempre infino all'ora estrema
Mi fieno, a ricordar, bramate piante.
Or quando al tutto irrigidito e freddo

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Questo petto sarà, nè degli aprichi
Campi il sereno e solitario riso,
Nè degli augelli mattutini il canto
Di primavera, nè per colli e piagge
Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia
Ogni beltate o di natura o d'arte
Fatta inanime e muta; ogni altro senso,
Ogni tenero affetto ignoto e strano;
Del mio solo conforto allor mendico,
Altri studi men dolci, in ch' io riponga
L'ingrato avanzo della ferrea vita,
Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi
Destini investigar delle mortali
E dell'eterne cose; a che prodotta,
A che d'affanni e di miserie carca
L'umana stirpe; a quale ultimo intento
Lei spinga e il fato la natura; a cui
Tanto nostro dolor diletti o giovi,
Con quali ordini e leggi, a che si volva
Questo arcano universo; il qual di lode
Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo

Verrò che conosciuto, ancor che tristo,
Ha suoi diletti il vero. E se del vero
Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi,
Non mi dorrò, che già del tutto il vago
Desio di gloria antico in me fia spento:
Vana Diva non pur, ma di fortuna
E del fato e d'amor, Diva più cieca.

XX. Il Risorgimento.

Credei ch'al tutto fossero In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età:

I dolci affanni, i teneri
Moti del cor profondo,
Qualunque cosa al mondo
Grata il sentir ci fa.

Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato,
Quando al mio cor gelato
Prima il dolor mancò!
Mancar gli usati palpiti,
L'amor mi venne meno,
E irrigidito il seno
Di sospirar cessò!

Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita;
La terra inaridita,
Chiusa in eterno gel;

Deserto il dì; la tacita
Notte più sola e bruna,
Spenta per me la luna,
Spente le stelle in ciel.

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