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sfatto il voto della vendetta imperiale. Infatti, quel suo atteggiamento di ribelle l'escluse da una prima amnistia che, col nome di riforma di Baldo d'Aguglione, i Fiorentini elargivano alla vigilia della minaccia imperiale; forse anche l'escluse dai successivi ribandimenti, resi necessari nel 1315 dal nuovo pericolo della guerra ghibellina di Uguccione della Faggiuola.

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La lettera nobilissima, con cui l'esule immeritevole rifiutava le condizioni di un ritorno umiliante, fu forse provocata dalle informazioni inesatte d'un amico sulle riserve di quell'amnistia; ma rimane tuttavia documento insigne dell' animo sdegnoso di Dante. «È questo il richiamo glorioso tali le sue parole all' Amico fiorentino - col quale Dante Alighieri si richiama in patria dopo aver sofferto per circa quindici anni l'esilio? È questo il premio della sua innocenza a tutti manifesta? Del sudore e della fatica continuata negli studi? Lungi da uomo familiare della filosofia la folle bassezza di un animo mondano.... lungi da uomo, il quale predica la giustizia, che egli dopo aver sofferto ingiurie, paghi il suo danaro a coloro che lo hanno ingiuriato. Non è questa, Padre mio, la via di tornare in patria; ma se altra di poi ne troviate, voi od altri, che non deroghi alla fama e all' onor di Dante, quella io prenderò a passi non lenti. Chè se per una cotale via in Firenze non si entra, mai non entrerò in Firenze. E che? Forse non guarderò in ogni luogo lo spettacolo del sole e degli astri? Forse non potrò dappertutto sotto il cielo investigare le dolcissime

verità, se prima non mi restituirò privo di gloria, anzi carico d'ignominia, al popolo e alla città di Firenze? Nè il pane mi mancherà ». La risposta di Firenze fu una nuova condanna, che il 6 novembre 1315 coinvolgeva i figli nella pena del padre.

Ma Dante non era stato coi nemici della sua patria al seguito dell'esercito imperiale; e dalla sua posizione di Guelfo, imperialista sì, ma non contaminato da contagi ghibellini, al limite estremo della visione paradisiaca, sperava finalmente dischiuse le porte della città del suo sogno. Lo disse a Giovanni del Virgilio, nella corrispondenza delle Egloghe, quando respingeva l'invito di cingere l'alloro poetico nel Ginnasio bolognese, e confermava il proposito di aspettare a Ravenna l'ora del ritorno trionfale.

Qui, nell'ultimo rifugio alla corte del Polentano, nella pace solenne della terra ravennate, tra lo splendore della romanità giustinianea, nel ricordo dei grandi mistici di quella terra, il Poeta conchiude l'opera divina dove ha evocato le grandi Ombre della sua patria, e solleva lo sguardo dall' ultimo orizzonte terreno alla gloría dei cieli. Ma prima di comporre le ultime armonie della Commedia, sulle ali della speranza, torna il suo pensiero sulle rive dell'Arno:

Se mai continga che il poema sacro,
Al quale ha posto mano e cielo e terra,
Sì che m'ha fatto per più anni macro,

Vinca la crudeltà che fuor mi serra
Del bello ovil dov' io dormii agnello
Nimico ai lupi che gli danno guerra;

Con altra voce omai, con altro vello
Ritornerò poeta, ed in sul fonte
Del mio battesmo prenderò il cappello.

Questo richiamo affettuoso forse fu noto ai Fiorentini soltanto quando s'era resa vana per l' esule la ricono scenza della patria, chè gli ultimi canti del Paradiso furono ritrovati e divulgati dai figli dopo che ebbero confortate le ultime ore paterne.

A Ravenna, il 14 settembre 1321 secondo la testimonianza del Villani moriva il Poeta reduce da una ambasceria a Venezia pel signore da Polenta; e forse portava con sè il desiderio di riposare le ossa all' ombra dei cipressi fiorentini, perchè aveva già invidiato un' età di più riposato vivere cittadino, quando ognuno «<era certo della sua sepoltura )).

I mercanti di Firenze, rimasti sordi al richiamo di tanta poesia, sentirono più tardi il dovere dell' ammenda. E la significarono nell' obolo pietoso che il Boccaccio, espositore della Commedia ai Fiorentini nella chiesa di Santo Stefano a Badia, doveva recare alla figlia Beatrice, monaca a Ravenna nel chiostro di Santo Stefano degli Olivi. Anche le reliquie umane, confinate in terra d'esilio, furono invidiate dai Fiorentini prima che il secolo si chiu

desse, e più volte ancora le domandarono, perfino con la mediazione di un Papa mediceo; ma quelle ossa furono sempre contese all' amore postumo della patria dalla religione dei Ravennati, depositari gelosi di una gloria non più fiorentina, ma dell' Italia e del mondo.

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Badia .

Santo Stefano del Popolo.

San Bartolomeo

Una strada di Mercato con la chiesa di S. Andrea

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Santo Stefano al Ponte

San Salvatore .

Il portico di Sant' Jacopo Soprarno

La parte antica del Palazzo del Podestà

Il ponte di Rubaconte.

Via di Terma e Palagio di parte Guelfa

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