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tamente; nè tal si corca giovine la sera, che nel mattino levasi vecchio; venendo in noi insensibilmente a scemare il giovenil vigore. Quindi il dileguarsi del nostro miglior tempo segue durando non pur giorni e mesi, ma degli anni ancora, e forse prima o la matura età o gl' imbiancati capelli o altro esteriore segno ci fanno altrui parer vecchi, che noi ci accorgiamo d'essere veramente fatti tali. Ben può più acconciamente il passare della giovinezza assomigliarsi al passar della primavera, a questa bella gioventù dell'anno, come piacevolmente l'addimandò alcun poeta: o primavera, gioventù dell' anno; (1) che l'una e l'altra succede non repentinamente, ma a poco a poco: e così il tramonto della Luna può meglio esser paragonato alla morte dell' uomo, avvenendo questa, parimenti che l'altra quasi che a un punto di tempo. Onde assai propriamente usiamo dire quell' uomo trovarsi prossimo al tramonto, il quale è a morire vicino.

Risguardando nella terza strofa di questo Canto, l'animo, non che sia preso alla bellezza de' versi, resta tutto percosso da orrore alla empietà de' concetti, che vi sono significati. Tanto ivi l'invelenito poeta sconciamente s'adira contro l'Autore della natura, a cui non piacque che il viver nostro ridesse perpetuamente in fiore di giovinezza, e ci ebbe, pria che alla morte, condannato alla vecchiezza, male, a suo vedere, così duro, da doversene spaventare più della morte stessa, e ch' ei chiama degno trovato d'intelletti immortali. Leggansi le sue parole.

Troppo felice e lieta

Nostra misera sorte

Parve lassù, se il giovenile stato,

Dove ogni ben di mille pene è frutto,
Durasse tutto della vita il corso.

Troppo mite decreto

Quel che sentenzia ogni animale a morte,
S'anco mezza la via

Lor non si desse in pria

Della terribil morte assai più dura.

D'intelletti immortali

Degno trovato, estremo

Di tutti i mali, ritrovar gli eterni

La vecchiezza

(1) Guarini nel Pastor fido.

Commendare di morale utilità poemi siffatti, è come a dire che la notte ne apporta la luce, il sole le tenebre. Or dov'è qui la bella e pomposa veste della sapienza, qual si dice essere la poesia? Chi non vi scorge piuttosto il lurido ammanto della più stolta insipienza e della più raffinata malizia? Chè non v' ha certo più stolida insieme e più scellerata cosa che il voler mettersi a cercare ragione degli occulti provvedimenti celesti, e questi temerariamente condannare, ove a noi non piacciano. Nè dovremo poi consentire al Leopardi esser la vecchiezza priva al tutto, com' ei la finge, di piaceri, e peggiore età che sieno le altre; ma converremo piuttosto col grande d'Arpino, che scrisse: levis est senectus, nec solum non molesta, sed etiam jucunda, e un trattato compose in commendazione della stessa vecchiezza; (1) converremo col nostro savissimo Gelli, il quale gravemente pronunciò che la sola memoria e il ricordarsi d'essere vivuti civilmente e da uomo da bene, val più che tutti i piaceri e tutti i diletti di ciascun' altra età. (2)

La quarta strofa: Voi collinette e piagge........ nulla ci reca di nuovo; essendo che altro ella non sia che una semplice imitazione di quel famoso passo di Orazio:

Damna tamen celeres reparant coelestia Lunae;
Nos ubi decidimus.

(Lib. IV. Od. VII.)

passo imitato da molti scrittori, e che propriamente accenna alla irreparabil perdita della umana vita, ma che nel presente caso piacque al nostro poeta accomodare, variandolo in parte, allo sfiorire de' nostri verdi anni.

Altre poesie ricordami aver letto intorno a tale argomento, qual più bella qual meno: ma in niuna di esse mi avvenne mai di abbattermi in parole punto sdegnose e superbe contro l' inventore, se può così dirsi, della vecchiezza. Egli ancora il veronese Ippolito Pindemonte, coltissimo letterato de' nostri tempi, compose un' Ode sulla giovinezza, che va in istampa con altre delle sue campestri poesie. Non vi si scorge per fermo quella vena e vampa poetica, che ha del terribile insieme e del mera

(1) Cato maior seu De senectute.

(2) Capricci del Bottaio, ragionamento X.

viglioso, come nel nostro autore; ma tuttavia non saprei che di elegante e di leggiadro vi si potesse desiderare, nè di quel piacevole ancora che tanto importa alla bellezza della poesia, chiamata giustamente dal Chiabrera la dolcezza degli uomini. Come quasi affatto non querelasi il buono Ippolito del vedere trascorsa quella età, che di nostra vita è invero la più bella, ma a un tempo la più pericolosa, la più incostante e inesperta! Come ancora non gli sa male del sopravvenire della vecchiezza, anzi mostra aver consolato l'animo dal pensare che ad essa i giorni corron sereni e tranquilli, e pieni di maturo senno e prudenza, per andare immune quella tarda età dagl' incomodi molti, e talvolta perniciosissimi, ond' è circondata la malcauta gioventù! Rettamente perciò conclude tutte l'età esser belle all'uomo, che virtuosamente sa condurre la sua vita. È questa, a dir breve, una poesia, che leggesi con egual diletto e profitto, cioè che rileva l'animo col piacere della sua bellezza, ed educa il cuore a virtù con gli utili ammaestramenti che ne porge.

Viene ultima La Ginestra, Canto composto dal Leopardi poco innanzi al compiere di sua giornata; e che perciò potrebbe a ragione esser detto il canto del cigno morente: se non che l'autore volle in esso, anzi che cigno, apparire rauco corvo, o ferale ùpupa apportatrice di sinistri augurî; in si aspro e sgradevol metro risuona la sua musa in questa poesia postrema, tutto che nata sul lido piacevolissimo delle lusinganti sirene.

La Ginestra è il più vivo ritratto dello stolto e discredente filosofare del Leopardi; è il suggello a quanto ebb' egli di più strano, di più vituperevole, di più nefando disseminato ne' suoi lirici componimenti; è, come a dire, la corona di un edificio poetico, che sta poco a crollare, per non avere fermo e durabile fondamento in natura, ma poggiar tutto sovra empi deliri, sul dubbio, sul nulla. Nella Ginestra, più che in altro de' suoi canti, l'autore è preso dalla vanità di parer grande e sapiente, col dare a conoscere di pensare altrimenti e tenersi da più che il comun ceto de' mortali, verso cui mostra nutrire altissimo disprezzo. Vie maggiormente perciò odesi in essa l'irato fremer dell'uomo, che malato d'orgoglio, come disse quel moderno scrittore, altro rimedio non cerca a guarir dal suo male che l'orgoglio medesimo. Con più matta ira in questo canto scaglia il poeta vituperevoli oltraggi contro la natura, ministra di Dio, ch'è venuto sempre sin

qui severamente censurando: a costei imputa la colpa d'ogni nostro dolore, d'ogni nostra miseria; costei chiama dura nutrice, matrigna e nemica empia dell'uomo, e non avere ad esso più stima o cura che ad una formica. (1) Dovere perciò gli uomini stare tutti insieme confederati, come a guerra comune, contro la persecutrice ira di questa pretesa tiranna dell'umano genere. Deride nel presente Canto il suo secolo, e trascorre contro esso ad amari rimproveri per quel suo vantato progredire, ch' ei chiama volgere indietro i passi, dacchè non segue il calle segnato dal risorto pensiero, e vuole servo il pensiero stesso. (2) Tiene in conto di favola essere l'increata Sapienza discesa in terra a vestirsi di umanità. (3) E sotto spezie di cavare i popoli d'ignoranza, e trarli d' inganno, prosuntuosamente si fa ad essi maestro di spudorate menzogne, che scambia per preziosi dogmi; si dà pregio di diffondere a loro in mezzo la luce, che non è che densissimo fumo. E per lasciare di altre cose, a tale estremo di ce

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Favoleggiar ti piacque in quest'oscuro
Granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
Per tua cagion dell' universe cose

Scender gli autori e conversar sovente
Co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
Sogni rinnovellando, ai saggi insulta
Fin la presente età.

cità avealo condotto la sua superbia, che siccome ben si avvedea dover gli uomini abborrire la disonestà delle sue bugie e la mostruosità delle sue perverse dottrine, ed esser pronti a dargli una solenne mentita; così dichiara ciò d'altronde non derivare che dalla stupida loro ignoranza, e dall'amare essi piuttosto le tenebre che la luce. Laonde con segnalata quanto stolida impostura allega al suo proposito, e pone in fronte alla sua cantica il testo che leggesi al capo III § 19 del Vangelo di san Giovanni: et dilexerunt homines magis tenebras quam lucem, significando ch'ei, quasi mandato da Dio, fosse apportatore agli uomini di luminose verità, non sapute da questi o sfuggite. Ma peraltro non avvertì col nostro maggior Poeta, che ogni lume viene a noi dall'alto, cioè dalla sola divina sapienza:

Lume non è, se non vien dal sereno
Che non si turba mai, anzi è tenebra,
Od ombra della carne, o suo veneno.

Avrebbe egli piuttosto dovuto torsi la maschera, e senza altrimenti infingere citare, in iscambio dell'evangelico testo, quel nefario motto di Lucrezio, Religionum animum nodis exsolvere pergo (Lib. I.) o altro simile, che si aggiustasse meglio all'intendimento di chi si mostrò a religione dispettoso e nemico tanto da averne a ludibrio i più sacrosanti misteri. Conclude il Poeta con un' apostrofe alla insin da principio dimenticata ginestra, sbalestrando all' ordinario, come sempre in questo prolisso Canto, che, trattone una ben menoma parte, tanto ha che fare col fiore del deserto, del cui nome s' intitola, quanto il gennaio colle rose. Dice adunque che ancora cotal tenera pianta poco andrà a rimaner distrutta dal fuoco divoratore; ma che nondimeno es a cadrà qual visse, vale a dire non da pusillanime e vile, ma da grande e forte, chè non mai a' suoi giornî codardamente si prostrò (togli, o mortale qual che tu sei, che se cosa ti accada di avverso, vi ti acconci di buon grado, e ti rassegni a pazienza e umiltà; a te tocca questa salutare dottrina), supplicando invano il suo futuro oppressore.

E tu, lenta Ginestra,

Anche tu presto alla crudel possanza
Soccomberai dal sotterraneo foco.

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