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Del March. Cornelio Bentivoglio.

Vidi (ahi memoria fea delle mie rene!)

In abito mentito io vidi Amore

Ampio gregge guidar, fatto Pastore
Al dolce suon delle cerate avene:

Il riconobbi all'aspre sue catene,
Ch'usciano un poco al rozzo manto fuore::
E l'arco vidi, che il crudel signore,
Indivisibilmente al fianco tiene.

Onde gridai: povere greggi? ascoso
Il Lupo in vesta pastoral fuggite;
Pastor, fuggite il suono insidioso.

Allora Amor: Tu, che le insidie ordite.
Scopristi, ed ami sì l'altrui riposo,
Tutte prova in te sol le mie ferite.

Non avrebbono gli antichi Greci nè con gentilezza maggiore inventata, nè con più chiarez za espressa la presente favoletta. Quelle avene, parola Latina, si possono comportare nella Rima, la quale ha molti privilegi. Nel secondo verso del secondo Quadernario facilmente forse meglio, si sarebbe detto del rozzo mante fuore. Sono esquisiti i due seguenti versi,

,

Di Angelo di Costanzo.

Penna infelice, e ima! gradito ingegfi6), ibi

Cessate omadaf favor vostro antico,
Poichè quel vago volto al Ciel si amico
Ha le vostre fatiche in odio, e a sdegno;

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Ma se come tiranno entro al suo regno
Vi sforza Amor, nostro mortal nimico,
Tacendo gli occhi belli, e 'l cuor pudico,
Scrivete sol del mio supplizio indegno. I
E perchè ancor di ciò non si lamenti,
E ver noi più s' inaspri, abbiate cura,
Che fuor non esca il suon de' mesti accenti;

་་

Sicchè queste al mio mal pietose mura
A i patti vostri, e a' miei sospiri ardenti,
Sieno in un tempo culla e sepoltura. I

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Da capo a piedi è mirabilmente condotto il presente Sonetto. Niun pensiero ci è, che non sia con savio argomentare cavato dai segreti della materia, e niuna parola, che non sia utilelo necessaria. L'antitesi della chiusa non già una cosa rara, ma non perciò dee parere fanciullesea o ricercata, perocchè si conosce qui naturalmente nata, e senza pompa ferisce. Torno a dire, che ne' Sonetti non si debbono non già esigere, ma rimaner volentieri le chiuse luminose per qualche vivo colore, acciocchè il fine languido non faccia perdere il merito de'precedenti bei pensieri, ed acciocchè chi legge o ascolta, si congedi con ammirazione e dilette.

Del Dott. Giosef' Antonio Vaccari.

L'oceano

oceano gran Padre delle cose

Stende l'umide sue ramose braccia,

E tal s'avvolge per vie cupe ascose,
Ch'intorno intorno l'ampia terra abbraccia.

Che se in fiume converso, alte, arenose
Corna innalza, e superbo urta e minaccia :
Corre alle antiche sue sedi spumose
Velocemente, e suo destino il caccia:

Così l'alto valor, Donna, che parte
Da'bei vostr' occhi, per le vie del core
Minonda, e mi ricerca a parte a parte.

Che se talora alteramente fuore

Rompe in Rime disciolto, e sparso in carte, Ratto a voi torna, ed è sua scorta Amore.

La dote principale di questo Sonetto veramente poetico, e non inferiore in bellezza ad alcun altro di questo libro, è la magnificenza. Per sè stesso è oggetto maestoso il mare; ma con tanta gravità vien rappresentato questo suo effetto, ed usa il Poeta così nobili metafore, ed epiteti cost scelti, che la maestà della materia cresce a dismisura, o almeno è più fortemente da ciascuno sentita. Appresso perchè la qualità delle comparazioni aggrandisce o avvilisce le cose comparate, manifestamente appare, che la splendidezza del paragone in questo Sonetto fa risplendere quell' oggetto, che il Poeta si è proposto d'esprimere e lodare. Il primo verso preso da Giulio Cammillo è sublime. Nè sono men belli i seguenti, scorgendosi in tutti una particolare aggiustatezza e forza di dire.

Del Petrarca

Quanta

uanta invidia ti porto, avara Terra,
Che abbracci quella, cui veder m'è tolto,
E mi contendi l'aria del bel volto,
Dove pace trovai d'ogni mia guerra!

Quanta ne porto al Ciel, che chiude e serra,
E si cupidamente ha in sè raccolto
Lo spirto delle belle membra sciolto,
E per altrui si rado si disserra!

Quanta invidia a quell' Anime, che in sorte
Hanno or sua santa e dolce compagnia,
La qual io cercai sempre con tal brama!

Quanta alla dispietata e dura Morte,
Ch'avendo spento in lei la vita mia,
Stassi ne' suoi begli occhi, e me non chiama,

Gran difficoltà non avrebbe altri provato in ritrovare i quattro oggetti, a' quali dice il Petrarca di portare invidia. Ma non gli sarebbe già riuscito, senza grande ingegno e fatica, di cavare così bei pensieri, e d'esprimerli con tanta forza e vaghezza, come qui si veggiono espressi. Nobile e vivace si è tutto il Sonetto; e nel tutto ha un non sò che di più vigoroso il secondo Quadernario. Siccome prosaico e basse può dirsi l'ultimo verso del primo Ternario, così per lo contrario l'ultimo del Sonetto è maraviglioso e per lo sentimento, e per la grazia dell' espressione.

Amor

Di Annibale Nozzolino.

talvolta a me mostra me stesso
Dentr'a i begli occhi della Donna mia;
Ond' io, sol per veder che stato sia
Il mio, mi faccio alle sue luci appresso.

E veggo un volto squallido, e con esso
Quell'oscuro pallor, che a Morte invia;
Che mi fa dubitar, se quello io sia,
O pur un altro ne' suoi lumi impresso.

Ella, che mira ancor ne gli occhi miei,
Vi vede il volto suo, che di splendore
Somiglia il Sol, quando più in alto poggia
Allora insieme (oh dolci casi, e rei!)
Ella per gioja, ed io per doglia fuore
Dolce mandiamo e dolorosa pioggia.

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Consiste secondo il mio parere la virtù di questo Sonetto nella facilità di dire quanto si è voluto dire e nella buona unione e condotta di tutto il Componimento, e in un certo non so che di novità e grazia, che ha l'invenzione dell' argomento. Per altro non è Sonetto di gran polso: ma nel carattere tenue ha esso una ve nustà non tenue, ed è più che mezzanamente bello.

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