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Mo

Del Sen. Vincenzo da Filicaja.

I.

orte, che tanta di me parte prendi,
E lasci l'altra del suo albergo fuore,
Se intendesti giammai, che cosa è Amore,
O ti prendi anco questa, o quella rendi.

E se tant' oltre il poter tuo non stendi,
Armami almen del tuo natío rigore,
E contro i colpi del crudel dolore
Tu, che si m'offendesti, or mi difendi.

Ma nè d'erbe virtù, nè arte maga,
Nè a risaldar bastanti unqua sarieno
Balsani di Ragion sì acerba piaga;

Onde lentando al giusto duo! il freno
Forz'è, ch' io pianga, e del mio Ben la vaga
Immago adombri in queste Carte almeno.

E

II.

ben potrà mia Musa entro le morte Membra ripor lo spirto, e viva e vera Mostrar lei, qual fu dianzi, e dir qual era, E parte tor di sue ragioni a Morte.

Dir potrà, che fu giusta e saggia e forte,
Onor del sesso, e di sua stirpe altera;
Donna, che fuor della volgare schiera
Il Ciel già diede al secol nostro in sorte.

Donna, che altrui fu norma; e norma solo
Di se dando a sè stessa, in sè prescrisse
Legge a gli affetti, e frenò l'ira e 'l duolo.

Donna, che in quanto fece e in quanto disse,
Tanto levossi sovra l'altre a volo,

Che mortal ne sembrò, sol perchè visse.

III.

Era già il tempo, che del crin la neve

Stagiona i frutti di Virtù matura,
E co' sensi Ragion più s'assicura,
E forze il Senno dall' età riceve.

Quando l'ora fatal, che giunger deve,
Fe' torto al Mondo, e impoverì natura
D'un Ben, che qui sotto mortal figura
Si tardo apparve, e sparì poi si lieve.

Tutta allor di sè armata, e in sè racchiusa
Nel suo più interno alto-recinto ascese
La Donna forte, a paventar non usa.

E nuove alzando intorno a sè difese
Lasciò in preda il suo frale; e la delusa
Morte, non lei, ma la sua spoglia offese.

IV.

Vidila in sogno, più gentil che pria,

E in un atto amoroso e in un sembiante
Si leggiadro e sì dolce a me davante
Che un cuor di selce intenerito avria.

,

Volgi, mi disse, il guardo a questa mia
Non più vita mortal, qual era inante:
E se Ciel non m'invidii, ah! perchè a tante
Stille amare per gli occhi apri la via?

Non t'è noto, ch'io vivo? E non t'è noto,
Che a far la vita mia di vita priva,

Scocca la Morte, e scocca il Tempo a voto?

Ma, se pianger vuoi pur, col pianto avviva
L'egro tuo spirto, che di spirto è voto;
Che ben morto sei tu, quant' io son viva.

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Così patiommi, e per l'afflitte vene

Spirito corse di conforto al core;
Ma l'Alma ritenendo il primo errore,
Segue a nutrir le sue feconde pene.

Ahi, come a filo debile sattiene
Il viver nostro, e come passan Pore!
E come tosto inaridisce e muore
Anzi suo tempo il fior di nostra spene!

Due spirti Amor con ingegnoso innesto
Giunti avea sì, che potean dirsi un solo;
E questo in quel viveasi, e quello in questo.

Sparve l'uno e spiegò ver l'etra il volo,
Lasciando all' altro solitario e mesto
Per suo retaggio il desiderio, e 'l duolo.

VI.

Of chi fia; che i men noti e i più sospetti

Scogli mi mostri, onde la vita è piena?
E la turbata sorte, e la serena,

Col proprio esempio a ben usar m'alletti?

Chi fia, che gli egri miei confusi affetti
Purghi e rischiari, e dia lor polso, e lena?
E degl'interni moti alla gran piena
Argine opponga di consigli eletti?

Chi fia, che meco i suoi pensier divida,
E de' casi consorte o buoni o rei,

Al mio riso, al mio pianto e pianga, e rida?

Fammi, o Morte, ragion, se giusta sei;
O uccida il Tempo, pria che'l duol m'uccida,
La memoria del Ben, se 'I Ben perdei.

VII.

Oh quante volte con pietoso affetto,

T'amo, diss' ella, e t'amerò, qual figlio!
Ond' io bagnai per tenerezza il ciglio,
E nel tempio del cuor sacrai suo detto.

Da indi, o fosse di Natura effetto,
O pur d'alta virtù forza e consiglio,
L'amai qual madre; e questo basso esiglio,
Mi fu solo per lei caro, e diletto.

Vincol di sangue, e lealtà di mente

E tacer saggio, e ragionar cortese,
E bontà cauta, e libertà prudente,

E oneste voglie in santo zelo accese,
Fur quell' esca leggiadra, a cui repente
L'inestinguibil mio foco s' accese.

VIII.

Fuoco, cui spegner de' miei pianti l'acque

Non potran mai, nè de' sospiri il vento;
Perchè in terra non fu suo nascimento,
Nè terrena materia unqua gli piacque.

Prima che nascess' io, nel Cielo ei nacque,
Ed ancor vive, nè giammai fia spento,
Che alle faville sue porge alimento
Quella, che a noi morendo, al Ciel rinacque

Anzi or lassù vie più s'accende, e nuova
A sua virtù virtute ivi s'aggiunge,
Qv' ei sè stesso, e 'l suo principio trova,

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E mentre al primo ardor si ricongiunge,
Cresce così che con mirabil prova,

Biù che pria da vicin, m'arde or da lunge..

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Signor,

IX.

ignor, fu mia ventura, e tuo gran dono
L'amar costei, che ad amar te mi trasse:
Costei, che in me la sua bontà ritrasse,
Per farmi a te simil più, ch'io non sone.

Onde in pensar, quanto sei giusto e buono,
Convien che gli occhi riverenti abbasse;
E ch'altro duol più saggio il cor mi passe,
Chiedendo a te del primo duol perdono.

Ch'io so ben, ch'a mio pro di lei son privo,
Perch'io la segua e miri a fronte a fronte
Quanto è il suo Bello, in te più bello, e vivo.

Più allor mie voglie a ben amar fian pronte: Che se in quella t'amai, qual fonte in rivo Amerò quella in te, qual rivo in fonte.

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ANNOTAZIONE AL PRIMO SONETTO.

Un solo bel Sonetto è un gran Panegirico di ha composto. Nove tutti incatenati sul medesimo argomento, cioè in morte di Cammilla da Filicaja Alessandri, e tutti belli, sono un miracolo ben raro in poesia. Ora tali a me sembrano i seguenti, ravvisando io in essi un ragio nar filosofico, un affetto naturale insieme e in gegnoso, un giro giudiziosissimo di pensieri ben legati, e il tutto disteso con imparreggiabile vivezza poetica, nobiltà di passaggi, leggiadria di Lingua, e gran dominio nelle Rime. - Morte che tanta ec. Questo sentimento, che io al trove non seppi approvare in bocca d'Armida parlante all'improvviso, qui riesce vaghissimo e forte, per la differenza di chi parla. Ma ne d'erbe ec. Affettuoso non men che giudizioso & questo trapassamento; anzi tutto il Terzetto ha una particolar bellezza..

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