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II Bifolchetto.

(Idillio attribuito a Mosco).

Eunice mi schernì, mentre parlarle Dolcemente io voleva, e con rimbrotti Via mi cacciò: lungi di qua, bifolco, Mi disse acerbamente; e che presumi? Forse d'innamorarmi! O miserello! Sprezzo rustici amori, io non conosco Che vezzi di città. Nemmeno in sogno Tu mi possederai. Che rozzo sguardo, Che villano parlar, che vili scherzi ! Hai bella voce in ver, gentil favella, Morbida barba e delicata chioma. Che nere mani, che deformi labbra ! Certo tu l'hai malate. Oh qual dintorno Hai tristo odor! Via via. Non ammorbarmi. Si disse, e si sputò tre volte in seno. Da capo a piè squadrommi, e biascicava Intanto fra le labbra e obliquamente Volgeami l'occhio bieco. Ingalluzzossi, Fiera di sua beltade, e a denti aperti Un riso beffator mi fe' sul volto. Allor bollimmi il sangue. Io per la rabbia Rosso in faccia mi fei qual fresca rosa. Ella mi vôlse il tergo, ed io nel core Serbo atroce rancor per quella infame Che me così leggiadro ha preso a scherno. Pastori, dite il ver, non son io bello? Che forse qualche dio mi fece a un tratto

Da quel di pria diverso? A me sul volto
Fioria beltà, com'edera sul tronco;

E ornavami la barba. Eran le chiome
Sparse, qual appio, alle mie tempie intorno;
Bianca fronte splendea su ciglia nere;
Più di quei di Minerva erano i lumi
Vivi e sereni; e più d'una giuncata
Soave era la bocca, onde scorrea
D'un cereo favo il ragionar più dolce.
Grato è pure il mio canto, e grato il suono
Che sulla canna io so, sulla sampogna,
Sul piffero destar, sulla traversa.
Bello mi dice e m'ama ogni fanciulla
Della montagna. Eppur negommi amore,
Perchè pastor son io, la cittadina,

E mi fuggì, nè dar mi volle orecchio.
Certo ella non sapea che il bel Dionisio
Pascè egli pur ne' prati una vitella;
Nè che per un bifolco arse Ciprigna,
E al pasco i buoi menò sui frigii monti;
Ch' Adone amò nelle foreste, e morto
Nelle foreste il pianse. Endimïone
Non fu bifolco anch'egli? e non amollo
Cintia così bifolco, e dall' Olimpo

Non discendea per lui di Latmo al bosco
E seco non dormia? Per un bifolco

Tu pur vai mesta, o Rea. Tu stesso errando
Per un giovin bifolco andasti, o Giove.
Sola i bifolchi amar disdegna Eunice,
Di Venere maggior, di Cintia e Rea.
Ciprigna, or tu più non amare alcuno
No in cittade nè in monte, e sola omai,
Poi che disparve il dì, vanne al riposo.

SAGGIO

DI

TRADUZIONE DELL'ODISSEA

CANTO PRIMO.

L'uom dal saggio avvisar cantami, o diva, Che con diverso error, poi che la sacra Ilio distrusse, le città di molti Popoli vide ed i costumi apprese. In suo core egli pur di molti affanni Nel pelago soffrì, mentre cercava A sè la vita, ed ai compagni suoi Comperare il ritorno. E pur nessuno, Ben ch'il bramasse, ne salvò! Periro Tutti per lor follia, stolti! che i buoi Mangiâr del sole eccelso; ei del ritorno Lor tolse il dì. Figlia di Giove, alquanto Dinne di questi casi ancora a noi.

Gli altri che il fato acerbo avean fuggito Nelle lor case erano già, campati

Dalla guerra e dal mar. Lui solo ancora
E del ritorno e della moglie privo
In cavi spechi ritenea Calisso,
Inclita ninfa e diva, che di farlo
Suo sposo desiò. Ma quando il tempo
Venuto fu col volgere degli anni,

In che piacque agli dêi che al patrio tetto
In Itaca ei tornasse, allor finiti

Non furo i suoi travagli, ancor che in mezzo
A'suoi cari egli fosse. Ognun de’numi
N'ebbe pietà, salvo Nettun, che fermo
Nell'ira sua contro il divino Ulisse
Restò fin ch'ei non giunse al suol natío.
Agli Etiopi lontani ito era il nume
(Agli Etiopi, del mondo ultima schiatta
In due partita: gli uni al sol che cade,
Gli altri sono all'aurora) onde presente
Il sacrificio accôr d' un'ecatombe
D'agnelli e tori. Ivi al convito assiso
Stavasi con piacer. Ma gli altri dêi
S'eran raccolti dell'olimpio Giove
Nella vasta magione. Ad essi il padre
Degli uomini e de' numi a parlar prese;
Chè ricordossi del preclaro Egisto,
Cui morto aveva il rinomato figlio
D'Agamennone, Oreste. Or, lui membrando,
Favellò tra gli eterni in questi accenti:

Ci accusano i mortali, o stolti: e dànno
Delle sventure lor la colpa ai numi,
E sì per lor follía soffrono affanni
Non voluti dal fato. Egisto appunto
Del destino ritroso a or or la moglie
D'Agamennon si tolse a sposa, e lui
Tornato uccise: e pur l'acerbo fine
Che l'attendea non ignorò. Spedito
Gli avevamo noi già Mercurio, d'Argo
Il veggente uccisor, che gli disdisse
Spegner l'Atride e tôr la moglie a sposa;
Ed avvisato il fè come da Oreste,
Cresciuto d'anni e in bramosia venuto
Delle sue terre, Agamennon vendetta

Avuto avria. Così Mercurio a lui
Saggiamente parlò; ma nol rimosse

Dal suo pensiero. Or quegli a un tempo solo
Tutto pagò del mal oprare il fio.

A lui Minerva dalle azzurre luci
Così poscia rispose: O nostro padre,
Saturnio dio, sommo de' re, tal sorte
Quel meritossi assai. Così perisca
Chi com' egli oprerà. Ma per Ulisse
Il battaglioso mi si strugge il core:
Misero che lontan da' cari suoi

Da gran tempo sopporta immensi affanni,
In un'isola d'arbori nutrice,

Tutta cinta dall'acque, ove del mare
È l'umbilico, e dove in sua magione
Ha ricetto una dea figlia d'Atlante,
Cui tutto è noto, che del mar gli abissi
Tutti conosce e che la terra e il cielo
Sopra colonne altissime sorregge.
La figliuola di lui ritiene a forza

Il misero piangente; e ognor con dolci
Molti detti il carezza, affin che il prenda
D' Itaca oblio. Ma di sua terra almeno
Veder bramando Ulisse alzarsi il fumo,
Morir desia. Nè da pietade infine
Il tuo cor sarà tocco, olimpio dio?
Nell'ampia Troia non ti fece Ulisse
Presso alle navi achee gradite offerte?
E d'onde, o Giove, contro lui tant' ira?
Giove de' nembi adunatore a lei
Rispose: O figlia mia, quai detti uscîrti
Dalla chiostra de' denti? Il divo Ulisse
Come obliar potrei ch'ogni mortale

Vince in prudenza, e al par di cui non evvi
Uom ch'abbia offerte agl' immortali numi

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