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INNO A NETTUNO

D'INCERTO AUTORE.

(Traduzione dal greco.)

Lui che la terra scuote, azzurro il crine, A cantare incomincio. Alati preghi A te, Nettuno re, forza è che indrizzi Il nocchier fatichevole che corre Su veloce naviglio il vasto mare, Se campar brama dai sonanti flutti E la morte schivar: chè a te l'impero Del pelago toccò, da che nascesti Figlio a Saturno, e al fulminante Giove Fratello e al nero Pluto. E Rea la diva Dal vago crin ti partorì, ma in cielo Non già, chè di Saturno astuto nume Gli sguardi paventava. Ella discese A la selvosa terra, il petto carca D'acerbe doglie, e scolorite avea Le rosee guance. Mentre il sole eccelso Ardea su le montagne i verdi boschi, E sul caldo terren s'abbandonava L'agricoltor cui spossatezza invaso Avea le membra (poi che di Seméle

Dal sen ricolmo nato ancor non era
Il figlio alti-sonante, ed a gl' industri
Mortali sconosciuto era per anche
Il vin giocondo che vigore appòrta),
Ella s'assise a l'ombra, e, come uscito
Fosti del suo grand'alvo, ti ripose
Su le ginocchia assai piangendo, e preghi
Porse a la Terra e a lo stellato Cielo :
O Terra veneranda, o Cielo padre,
Deh riguardate a me, se pure è vero
Che di voi nacqui, e questo figlio mio
Da l'ira di Saturno astuto nume
Or mi salvate, sì ch'egli nol veda,
E questi ben rincresca e venga adulto.
Così pregava Rea di belle chiome,
Poi che per te di fresco nato in core
Sentia gran tema: e per gli eccelsi monti
Ed il profondo mare errando giva
L'eco romoreggiante. Udilla il Cielo
E la feconda Terra, e nera notte
Venne sul bosco e si sedè sul monte.
Ammutarono a un tratto e sbigottiro
I volatori de la selva, e intorno
Con l'ali stese s'aggirâr vicino
Al basso suol. Ma t'accogliea ben tosto
La diva Terra fra sue grandi braccia;
Nè Saturno il sapea, chè nera notte
Era su la montagna. E tu crescevi,
Re dal tridente d'oro, ed in robusta
Giovinezza venivi. Allor che voi,
Di Rea leggiadra figli e di Saturno,
Tutto fra voi partiste, ebbesi Giove,
Che i nembi aduna, lo stellato cielo;
Il mar ceruleo tu; s'ebbe Plutone
De l'averno le tenebre. Ma tutti

Tu de la terra scotitor vincevi,
Salvo Giove e Minerva. E chi potrebbe
Con l'Olimpo cozzare impunemente?
Il cielo tu lasciasti, e teco il figlio
De la bianca Latona in terra scese:
Ed al superbo Laomedonte alzavi
Tu dell'ampio Ilïon le sacre mura;
Mentre ne' boschi opachi e ne le valli
De l'Ida nuvolosa i neri armenti
Febo Apollo pascea: ma Laomedonte,
Compita l'opra tua, la pattuita
Mercede ti negò: stolto! chè l'onde
Biancheggianti del pelago spingesti
Contr' Ilio tu, che sormontar le mura
Con gran frastuono mormorando, e tutta
Empiero la città di sabbia e limo
Co' prati e le campagne. E tal prendesti
Del fier Laomedonte aspra vendetta.

Ma qual cagione a tenzonar ti mosse
Con Palla diva occhi-cilestra? Atene
La cecropia città, poi ch'appellata
Tu la volevi dal tuo nome, e Palla
Il suo darle voleva. Ella ti vinse,
Chè con la lancia poderosa il suolo
Percosse e uscir ne fe vivente olivo
Di rami sparsi. Ma tu per fiedesti
La diva Terra col tridente d'oro,
E tosto fuor n'uscì destrier ch'avea
Florido il crine: onde a te diero i fatti
I cavalli domar veloci al corso.

I pastori aman Pan, gli arcieri Febo,
Cari a Vulcano sono i fabbri, a Marte
Gli eroi gagliardi in guerra, i cacciatori
A la vergine Cintia. A te son grati
I domatori de' cavalli, e primo

Tu de la terra scotitor possente
A chiomati destrieri il fren ponesti.
Salve, equestre Nettuno. I tuoi cavalli
Van pasturando ne gli argivi prati,
Che a te sacri pur sono: e con la zappa
Il faticoso agricoltor non fende
Quel terreno giammai nè con l'aratro.
Ma presti son come gli alati augelli
I tuoi destrieri ed erta han la cervice;
Nè ci ha mortal che trarli possa innanzi
Al cocchio sotto il giogo e con le briglie
Reggerli e col flagello e con la voce.

Qual però de le ninfe a te dilette,
Signor del mare, io canterò? la figlia
Di Nereo forse e Doride, Anfitrite?
O Libia chiomi-bella, o Menalippe
Alto-succinta, o Alópe, o Calliroe

Di rosee guance, o la leggiadra Alcione,
O Ippotoe, o Mecionice, o di Pitteo

La figlia, Etra occhi-nera, o Chiome, od Olbia,
O l'eolide Canace, o Toosa

Dal vago piede, o la Telchine Alia,
Od Amimone candida, o la figlia
D'Epidanno, Melissa? E chi potrebbe
Tutte nomarle? e a noverar chi basta
I figli tuoi? Cercion feroce, Eufemo,
Il tessalo Triópe, Astaco e Rodo,
Onde nome ha del Sol l'isola sacra,
E Téseo ed Alirrozio ed il possente
Triton, Dirrachio e il battaglioso Eumolpo,
E Polifemo a nume ugual. Ma questo
Canto è meglio lasciar, chè spesso i figli
Cagion furono a te d'acerbo lutto.
Polifemo de l'occhio il saggio Ulisse
In Trinacria fe cieco; Eumolpo spense

In Attica Eretteo: ma ben vendetta
Tu ne prendesti o Scoti-terra, e, morto,
Lui con un colpo del tridente, al suolo
La casa ne gettasti. E Marte istesso
Impunemente non t'uccise il figlio
Alirrozio leggiadro: i numi tutti
Lui concordi dannâr. Salve, o Nettuno
Ampio-possente: a te gl'istmici ludi
E le corse de' cocchi e de gli atleti
Son sacre, e l'aspre lotte e neri tori
In Trezene, in Geresto e in cento grandi
Città di Grecia ogni anno a l'are tue
Cadono innanzi; e ne la doric' Istmo
Vittime in folla traggono al tuo tempio
Le allegre turbe. Oh salve, azzurro dio
Che la Terra circondi, alti-sonante,
Gravi-fremente. I boschi su le cime
De le montagne crollansi, e le mura
De le cittadi popolose e i templi
Ondeggiano perfino allor che scuoti
Tu col tridente flebile la Terra,
E gran fracasso s'ode e molto pianto
Per ogni strada. Nè mortale ardisce
Immoto starsi; ma per tema a tutti
Si sciolgon le ginocchia, e a l'are tue
Corre ciascun, t'indrizza preghi e molte
Allor s'offrono a te vittime grate.

Salve, o gran figlio di Saturno. Il tuo Lucente cocchio è in Ega, nel profondo Del romoroso pelago: Vulcano

Tel fabbricò, divina opra ammiranda.
Ha le ruote di bronzo, ed il timone
D'argento e d'oro tutto è ricoperto
L'incorruttibil seggio Allor che poni
Tu sotto il giogo i tuoi cavalli, e volano

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