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Quando l'Italia moderna uscì dalla notte del medio evo, la sua filosofia, educata nei monasteri e nei templi, aveva riunito le dottrine platoniche colla teologia cristiana, ed allora la poesia fu platonica e religiosa con Dante, col Petrarca e col Tasso. Si volsero quindi gl'intelletti all'esperienza, non più contenti all'autorità di Platone, di Aristotile e dei più moderni maestri; interrogarono la natura e i fenomeni di lei per iscoprire le leggi che la governavano, e il metodo sperimentale passò dalle scienze naturali alle intellettive e creò il Sensismo; e la poesia al mondo sensibile si rivolse, e nelle opere degli antichi poeti più non si fece a ricercare che quanto di sensibile vi era, cioè la forma e la bellezza esteriore. Ma ben presto si accorsero le menti che il Sensismo non era capace di sciogliere alcuno dei grandi problemi intorno ai quali si affaticò in ogni tempo il pensiero dell'umanità, e fuori della materia cercarono la spiegazione di quelli per due vie diverse; l'una delle quali conduce al riposo dello spirito nel vero rivelato; l'altra guida al dubbio e allo sconforto dell'intelligenza che dispera di trovare quell' unico oggetto in cui possa acquetarsi: la verità cioè, che ne è la propria essenza. E tali due vie percorse anch'essa la poesia, e ne uscirono due scuole, l'una ispirata dalla religione, l'altra dallo scetticismo e dal dolore.

A quest'ultima appartiene Giacomo Leopardi; benchè per l'altezza dell'ingegno suo possa dirsi piuttosto una grande individualità solitaria che, pure in sè riunendo il pensiero di una gran parte dell'età sua, s'innalza gigantescamente sovr'essa e

pare che rappresenti sè medesimo soltanto e riempia le anime di terrore nello stesso tempo e di maraviglia coll'audace sfida ch'egli lancia in faccia all'umanità ed ai sogni più cari di quella. La quale individualità, che è carattere proprio di tutti gli intelletti che sono in alto grado forniti di lirica potenza e che prendono le ispirazioni loro dall'interno commovimento, e le cose esteriori significano soltanto con quell'impronta che dall'individuale loro pensiero hanno presa, più che in ogni altro si ravvisa nel Leopardi, che visse una vita tutta sua particolare, e vide la società e l'esistenza sotto un aspetto diverso da quello che agli altri sogliono rappresentarsi. Il perchè è necessario che della sua vita noi diciamo alcuna cosa per quella parte almeno che potè concorrere a formare in lui il pensatore ed il poeta.

Nacque egli a Recanati nelle Marche il 1798 dal conte Monaldo Leopardi e dalla marchesa Adelaide Antici, e fu educato nella casa paterna da maestri che gl'insegnarono le umane lettere e la filosofia. Il secondo di questi lo accompagnò fino all'età di 14 anni; ma egli, toccato appena il decimo, erasi accorto che l'insegnamento che gli veniva dato da altri non bastava a saziare l'animo suo, e cominciò a cercare da sè medesimo quel pascolo della mente che più gli conveniva. Trovandosi per buona ventura in casa una ricca biblioteca si chiuse entro di quella ed attese con invitta costanza agli studi, imparando, senza aiuto di maestri, la lingua francese, la spagnuola e l'inglese non solo, ma ancora l'ebraica, talchè eccitò la maraviglia di alcuni dotti ebrei anconitani coi quali prese a disputare,

e la greca, della quale invaghitosi smisuratamente, spese sette anni continui in studi filologici e giunse al segno di non temere il paragone non pure dei filologi italiani, che per disgrazia nostra non sarebbe gran vanto, ma ancora dei più insigni fra i dotti delle più colte nazioni d'Europa. In mezzo a queste sue occupazioni intorno alle lingue antiche ed alle straniere letterature, egli non dimenticava il bellissimo idioma della sua patria, del quale apprendeva nei classici il difficile magistero e a cui si addestrava con traduzioni prosastiche e poetiche de' più bei brani degli antichi maestri, venendo con essi a gara di perfezione, e congiungendo nel suo stile la semplicità greca col fare ingenuo, che tanto le somiglia, de' nostri scrittori del trecento, schivando per la finezza del suo gusto la pedantesca imitazione che altri ne fecero, e convertendole in sangue e sugo tutto suo particolare. Nè questo amore potentissimo della filologia valse a spegnere in lui il calore dell'immaginazione e della fantasia; chè anzi egli sentiva grandissimo in sè il bisogno della poesia, di questo primo fiore che sboccia dalle meridionali intelligenze ad annunziare i frutti che esse un giorno saranno per produrre : a significare la veemenza del quale bisogno è d'uopo che si riferiscano alcune parole ch'egli fece a questo proposito in una sua lettera a Pietro Giordani, che il giovava de' suoi consigli, ed amandolo tenerissimamente, da lontano gli serviva di guida nelle sue letterarie fatiche. Da che, gli scriveva il suo Giacomo, ho cominciato a conoscere un poco il bello, a me quel calore e quel desiderio ardentissimo di tradurre e far mio quello che leggo non

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han dato altri che i poeti, e quella smania violentissima di comporre non altri che la natura e le passioni, ma in modo forte ed elevato, facendomi quasi ingigantire l'anima in tutte le sue parti e dire fra me: Questa è poesia; e per esprimere quello che io sento ci vogliono versi e non prosa, e darmi a far versi. Non mi concede ella di leggere ora Omero, Virgilio, Dante e gli altri sommi? Io non so se potrei astenermene, perchè leggendoli provo un diletto da non esprimere con parole, e spessissimo mi succede di starmene tranquillo e, pensando a tutt'altro, sentire qualche verso di autor classico che qualcuno della mia famiglia mi recita a caso, palpitare immantinente e vedermi forzato di tener dietro a questa poesia.

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Ma sette anni continui spesi in tali studi filologici e in un entusiastico amore della sapienza, della poesia e della gloria, logoravano miseramente quel corpo, che la natura, più matrigna che madre, gli aveva dato debolissimo ed incapace di corrispondere all'infaticabile attività della sua mente; e colpito da grave infermità negli occhi, che lo privò quasi dell' uso di quelli per un anno intero, più non potendo studiare nei libri, nè dare sfogo al bollente ingegno collo scrivere, si diede a cercargliene un altro nell'interiore meditazione e cominciò ad innamorarsi della filosofia, la quale più non abbandonò fin che visse, ed alla quale chiese, ma invano, la spiegazione del grande mistero dell' umanità e della natura.

Tornato alle predilette occupazioni, quanto più la sua mente acquistava di ricchezza e di forza, tanto più sentiva l'angustia dei limiti in cui fino

a quel tempo era stato rinchiuso, desiderava di vedere uomini e cose, di godere la vita, ch'egli nei suoi sogni d'infanzia si era immaginata così piena di bellezza e di poesia, di slanciarsi in un teatro più conveniente alla sua sete di gloria, di sottrarsi alla sua famiglia, cui lo tenevano avvinto i più dolci e antichi affetti, ma dove gli pareva di essere contrastato, spiato e di non possedere tutta quella indipendenza di cui sentiva il bisogno. Lasciò adunque Recanati in sullo scorcio del 1822 e venne a Roma, dove sperava di trovare una occupazione che gli procurasse il modo di vivere senza essere di peso alla sua casa, ed ivi si persuase che il mondo non era fatto per lui, che il suo bisogno d'amore, d'entusiasmo, di vita, non trovava cosa che soddisfare il potesse; s'incontrò in donne che gli facevano stomaco, in uomini che gli facevano rabbia e misericordia, e al contatto della società si accorse che egli era più fatto per disprezzare che per ammirare. L'illustre consigliere Niebhur, che allora trovavasi in Roma, inviato straordinario della Corte di Prussia, si adoperò presso il cardinale Consalvi per ottenergli un impiego, e questi gli offerse la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento, ch'egli rifiutò per tornare l'anno seguente in seno de' suoi, l'amore dei quali nella lontananza si faceva in lui sentire più forte. Egli fece ritorno a Recanati assai diverso da quello che ne era partito; egli aveva oramai abbandonata ogni speranza della vita, aveva sentito a lungo il vuoto della esistenza come cosa reale che fortemente premesse l'anima sua, e il nulla delle cose era la sola cosa che per lui esistesse. Si lagnava che

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