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SONETTO LXXVIII.

Laura gli apparisce in sogno si spesso, cb'egli s'attenta parlarle · passione. Ella se n'affligge, ed ei dal dolore si desta.

della sua

L'aura

aura mia sacra al mio stanco riposo
Spira sì spesso, ch' i' prendo ardimento
Di dirle il mal, ch' i' ho sentito, e sento;
Che vivend' ella, non sarei stato oso.
Io 'ncomincio da quel guardo amoroso,
Che fu principio a sì lungo tormento:
Poi seguo, come misero e contento,
Di dì in dì, d'ora in ora Amor m'ha roso.
Ella si tace; e di pietà dipinta

Fiso mira pur me; parte sospira,
E di lagrime oneste il viso adorna:
Onde l'anima mia dal dolor vinta,

Mentre piangendo allor seco s'adira,
Sciolta dal sonno a se stessa ritorna.

L'aura, Laura: solito giochetto di parola. Sacra, perchè beata. - Stanco riposo, travagliato sonno- Oso, ardito, di dirglielo - Seguo, continuo Roso, consumato Parte, insieme, nello stesso

tempo

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Dal dolore d'aver afflitto la sua donna Seco stessa, d'averla fatta piangere con quella sua narrazione. M.

I quadernarii mi pajono così così. Viva pittura e belle immagini

sono quelle del primo terzetto. M.

SONETTO LXXIX.

Disingannato del mondo brama seguir Laura in cielo, e spregia la morte avvalorato dall'esempio di Cristo e di Lei.

Ogni giorno mi par più di mill'anni,
Ch'i' segua la mia fida e cara duce,

Che mi condusse al mondo, or ini conduce
Per miglior via a vita senza affanni.

E non mi posson ritener gl'inganni

Del mondo; ch' il conosco: e tanta luce
Dentr' al mio core infin dal Ciel traluce,
Ch' i' 'ncomincio a contar il tempo, e i danni.
Nè minacce temer debbo di Morte,

Che 'l Re sofferse con più grave pena,
Per farme a seguitar costante e forte:
Ed or novellamente in ogni vena
Entrò di lei, che m'era data in sorte,
E non turbò la sua fronte serena.

Duce, conducitrice

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Che mi condusse al mondo, che mi guidò mentr'ella visse Per miglior via, con apparizioni ed ispirazioni spirituali — A vita senz' affanni, alla vita celeste Ch' il conosco, perciocchè lo conosco — – A contare il tempo male speso, e i danni che ho recati all' anima mia Il Re, Rex Regum, Cristo, così chiamato per antonomasia · A seguitar lui — E la qual morte ora di recente entrò in ogni vena di lei. Dice così perchè la vita è supposta albergar nel sangue M'era data in sorte, ad esser mia guida al cielo.

SONETTO LXXX.

Confortato dall'esempio di Cristo e di Laura invoca la morte, avendo egli già cessato di vivere al morice di Lei.

Non può far Morte il dolce viso, amaro;

Ma 'l dolce viso, dolce può far Morte.
Che bisogna a morir ben altre scorte?
Quella mi
scorge, ond' ogni ben imparo:
E quei, che del suo sangue non fu avaro,
Che col piè ruppe le tartaree porte;
Col suo morir par, che mi riconforte.
Dunque vien, Morte; il tuo venir m'è caro:
E non tardar; ch'egli è ben tempo omai:

E se non fosse; e' fu 'l tempo in quel punto,
Che Madonna passò di questa vita.

D'allor innanzi un dì non vissi mai:

Seco fu' in via, e seco al fin son giunto;
E mia giornata ho co' suoi piè fornita.

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Non può ec. s'attacca all'ultimo verso del precedente Son. Morte non può far divenire amaro, turbare, il dolce viso di Laura; ma il suo dolce viso può bensì far divenire a me dolce la morte Che altre scorte, guide, bisognano a morir bene? Costrutto difettoso-Che col piè ruppe ec. Accenna la discesa di Cristo al Limbo Vien, vieDi · Ch'è ben tempo, per l'età mia avanzata; e se nol fosse a motivo di ciò, lo è sin da quel punto che Laura morì; perchè d'allora in poi mai non vissi un di; cioè la vita mi fu una morte continua In via; nel cammin della vita: seco vissi; e seco al fin son giunto, e morii quand'ella mori.

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Ha di molti pregi, come quello che ha parecchi versi robusti, uno stile dignitoso, e che non manca di lumi poetici. Ha nulladimeno anche de' versi assai difettosi: l'ultimo, per la sua oziosità; il terzo per la collocazione degli accenti, a cagione di quel ben, sul quale doveva cader l'accento ritmico, ovvero conveniva che ben precedesse a morir; ed il settimo, che mal si regge in piedi, per esser mancante d'un accento o sulla sesta, o sulla settima sillaba. *

Tomo II.

9

CANZONE VI

Colloquio del Poeta con

Laura apparsagli in

༠༠ས་་༠ །

in cui Ella il consola, e conforta a rivolgersi a Dio.

Quan

uando il soave mio fido conforto,

Per dar riposo alla mia vita stanca,
Ponsi del letto in su la sponda manca
Con quel suo dolce ragionare accorto;
Tutto di pieta e di paura smorto,
Dico: Onde vien tu ora, o felice alma?
Un ramoscel di palma,

Ed un di lauro trae del suo bel seno;
E dice: Dal sereno

Ciel empireo, e di quelle sante parti
Mi mossi; e vengo sol per consolarti .

Quando Laura ec. Ponsi, si pone

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Manca, sinistra e dice sinistra, soggiungono gl'interpreti, per esser questa la parte che riguarda il cuore - Pieta, pena, affanno Onde, di dove vieni tu

C'è invenzione poetica, c'è dell' affetto, e ci sono de' bei pensieri con tutto il verisimile e il decoro applic ati a qu esto dialogo del P. con Laura. Forse talnn bramerebbe, che lo stile fosse men liscio, e un po' più sollevato in alcuni luoghi: cioè gli parrà di trovar qui pochi lumi, poche figure mirabili o leggiadre, anzi gli sembrerà di sentire di quegli stessi modi di favellare, che terrebbe la prosa in descrivendo simigliante cosa. Ma è da sapere che moltissime forme son comuni al verso e alla prosa, ed altre sono ancor necessarie ad ambedue, secondo la qualità degli argomenti, e dello stile in cui si scrive, non essendoci necessità di sempre comporre in stile eroico e sublime. M.

In atto, ed in parole la ringrazio

Umilemente; e poi domando: Or donde
Sai tu 'l mio stato? Ed ella: Le trist' onde
Del pianto, di che mai tu non se'sazio,
Con l'aura de' sospir, per tanto spazio
Passano al Cielo, e turban la mia pace;
Si forte ti dispiace,

Che di questa miseria sia partita,
E giunta a miglior vita;

Che piacer ti dovria, se tu m'amasti

Quanto in sembianti, e ne' tuo' dir mostrasti. Rispondo: Io non piango altro, che me stesso, Che son rimaso in tenebre, e 'n martìre,

Certo sempre del tuo al Ciel salire,

Come di cosa,

ch'uom vede da presso.

Come Dio e Natura avrebben messo

In un cor giovenil tanta virtute,

Se l'eterna salute

Non fosse destinata al suo ben fare?

O dell'anime rare,

Ch' altamente vivesti qui fra noi,

E che subito al Ciel volasti poi!

il suo

Or donde, dunque da che Ed ella risponde di sapere stato dall'onde del pianto, e dall'aura de' sospiri, che passano al Cielo, varcando tanto spazio ch'è tra esso e la terra

Io sia partita di questa misera vita mortale

Si forte, co

Ne' tuo dir,

tanto ne' tuoi detti - Del tuo salire, della tua salita, al cielo. Ma è verso affatto prosaico e melenso— Come Dio, imperciocchè a qual fine Dio e la natura avrebbero ec. O anima delle rare- Altamente, egregiamente, santamente.

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