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Belo dove riman, fonte d'errore,
Non per sua colpa? dov'è Zoroastro,
Che fu dell' arte magica inventore?
E chi de' nostri duci, che 'n duro astro
Passar l'Eufrate, fece 'l mal
governo,
All' italiche doglie fiero impiastro?
Ov'è 'l gran Mitridate, quell' eterno

Nemico de' Roman, che si ramingo
Fuggì dinanzi a lor la state, e 'l verno?
Molte gran cose in picciol fascio stringo.
Ov' è 'l re Artù; e tre Cesari Augusti,
Un d'Affrica, un di Spagna, un Loteringo?
Cingean costu' i suoi dodici robusti:
Poi venia solo il buon duce Goffrido,
Che fe l'impresa santa, e i passi giusti.
Questo (di ch'io mi sdegno, e'ndarno grido)
Fece in Gerusalem con le sue mani

Il mal guardato, e già negletto nido.
Ite superbi, o miseri Cristiani,

Belo fonte d'errore, origine dell'idolatria, non per sua colpa ma per colpa di Nino suo figlio, che gli fece fare una statua, la quale fu poi adorata dal volgo-Zoroastro, re de' Battriani, inventore dell' arte magica, e dell' astrologica - E dov'è chi fece il mal governo de' nostri Duci che in mal punto passarono l' Eufrate: cioè Surena Re de' Parti che sconfisse i due Crassi: fiero impiastro all'italiche doglie, sanguinoso rimedio ( il Leopardi spiega: giunta di mali ) alle calamità che affliggevano l'Italia, straziata allora dalle guerre civili― La state e il verno: cioè, d'ogni tempo, del continuo― In piccol fascio, in poche parole-Il re Artù d'Inghilterrra famoso nelle storie de' Romanzieri— Tre Cesari Augusti, uno d'Affrica, Settimio Severo; uno di Spagna, Teodosio il Grande; un Loteringo, Carlo Magno I suoi dodici robusti, i suoi dodici Paladini-Goffredo di Buglione, Che 'l gran sepolcro liberò di Cristo - Questo, cioè Goffredo, fondò di sua mano in Gerusalemme il regno mal poi custodito, difeso, da'suoi successori, ed oggimai negletto, del che io mi sdegno e grido invano.

Consumando l'un l'altro; e non vi caglia,
Che 'l sepolcro di Cristo è in man di cani.
Raro, o nessun, ch' in alta fama saglia,
Vidi dopo costui (s'io non m'inganno),
pace, o di battaglia.

per arte di

Pur, com' uomini eletți ultimi vanno,

Vidi verso la fine il Saracino,

Che fece a' nostri assai vergogna, e danno.

Quel di Luria seguiva il Saladino:

Poi 'l duca di Lancastro, che pur dianzi

Er' al regno de' Franchi

de' Franchi aspro vicino.

Miro, com' uom che volentier s'avanzi,
S'alcuno vi vedessi, qual egli era
Altrove agli occhi miei veduto innanzi;
E vidi duo, che si partir jersera

Di questa nostra etate, e del paese:
Costor chiudean quell' onorata schiera:
Il buon re Sicilian, ch' in alto intese,
E lunge vide, e fu verament' Argo:
Dall' altra parte il mio gran Colonnese,
Magnanimo, gentil, costante, e largo.

Costui,

Cani, i Turchi; e chi da lor si noma. — Raro, rado Goffredo - Pur come i gran personaggi nelle processioni ultimi vanno Il Saracino, il famoso Saladino, mentovato ancor da Dante- Quel di Luria, Norandino re turco- Il Duca di Lancastro, cugino d' Odoardo VI Re d'Inghilterra morto al tempo del Poeta, dopo d'aver guerreggiato venticinque anni contro i Francesi con grave lor danno Pur dianzi, poco fa Che volentier s'avanzi, che brami acquistar nuove cognizioni Miro, mi pongo a mirare, se io vedessi quivi alcuno, che io avessi già veduto altrove co' miei occhi, cioè in vita Jer sera, testè, poco fa E del paese nostro, cioè dell'Italia IL buon Re Roberto di Napoli, che attese alle scienze, e fu pieno di perspicacia e d'avvedutezza, cra l'uno. Fu anche grand'amico e protettore del Petrarca, come può vedersi nella vita di questo

Argo,

custode della ninfa Jo trasformata in vacca dalla gelosa Giunone,. fingono i Poeti, che avesse cent'occhi Il mio gran Colonnese, Stefano Colonna il vecchio, amico egli pure e mecenate del Poeta, era l'altro.

Continua il P. a tessere il catalogo degli uomini famosi per arme A'suoi di, ne' quali l'ignoranza dell' erudizione era quasi al colmo, siffatti componimenti dovean parere mirabili cose. Oggidi temo forte, che poco plauso si farebbe a chi uscisse in campo con si lunghi registri; e fors' anche da taluno si griderebbe: al pedante. Non è per questo, che siano versi da dispregiare; ma solamente voglio dire, che in questo andar noverando gli antichi, poco o nulla c'è di raro, di nuovo, e di mirabile per la materia. Chi d'ingegno molto minore del Petrarca, non avrebbe saputo, e non saprebbe molto più oggidì con tre o quattro libri alla mano trovare, non dirò solo tutti coloro, che ha qui mentovati il Poeta, ma infiniti altri, giacchè alla rinfusa vengono qui posti i celebri per arme, per lettere, e per ogni altra virtù, e alcuni ancora famosi per i vizj; e Latini, e Greci, e Giudei, e Barbari, e che so io? Nè sono poi sempre questi cataloghi espressi con tai colori poctici, che possa alcuno in leggerli sentirsi rapito in estasi. M.

TRIONFO

DELLA FAMA

CAPITOLO TERZO

Nomina il Poeta nel presente Capitols i principali Filosofi, Preti, Storici, Oratori, e Medici dell'antichità, greci, e romani.

tc

Io non sapea da tal vista levarme;

Quand' io ùdii: Pon mente all'altro lato;
Chè s'acquista ben pregio altro, che d'arme.
Volsimi da man mança, e vidi Plato,

Che 'n quella schiera andò più presso al
Al qual aggiunge a chi dal Cielo è dato.
Aristotele poi, pien d'alto ingegno:
Pitagora, che primo umilemente
Filosofia chiamò per nome degno:
Socrate, e Senofonte; e quell'ardente
Vecchio, a cui fur le Muse tanto amiche,
Ch' Argo, e Micena, e Troja se ne sente:
Questi cantò gli errori, e le fatiche

Del figliuol di Laerte, e della Diva;

-

segno,

Udii dirmi: Poni mente ec. Plato, Platone, che in quella schiera di filosofi andò più vicino al segno nella cognizione dell'eterno vero, al quale giunge colui, a cui vien concesso dal Cielo per raro favore-Pien d'alto ingegno,,, Vidi il maestro di color che sanno,,, ha detto DanPer, con, nome degno, nomandosi umilmente filosofo, che vale amante della sapienza, invece di sofo, che val sapiente, nome arrogatosi dagli altri-Socrate maestro di Platone, principe della setta degli Accademici Senofonte, discepolo di Socrate Quell' ardente vecchio, Omero A cui fur le Muse tanto amiche:,, Che le Musc lattar più ch'altro mai,, disse Dante Se ne sente: (mal detto) vale sono ancora iu fama. Accenna in questo verso l'Iliade, e ne'due seguenti l'Odissea · Del figliuol di Laerte (cioè d'Ulissc) e del figliuol della Diva Tetide (cioè d'Achille ).

-

Primo pittor delle memorie antiche.
A man a man con lui cantando giva
Il Mantoan, che di par seco giostra:
Ed uno,
al cui passar l'erba fioriva.
Quest' è quel Marco Tullio, in cui si mostra
Chiaro, quant' ha eloquenza e frutti e fiori:
Questi son gli occhi della lingua nostra.
Dopo venia Demostene, che fuori

Un

È di speranza omai del primo loco,
Non ben contento de' secondi onori.

gran folgor parea tutto di foco:
Eschine il dica, che 'l potè sentire
Quando presso al suo tuon parve già roco.
Io non posso per ordine ridire,

Questo, o quel dove mi vedessi, o quando,
E qual innanzi andar, e qual seguire:
Chè cose innumerabili pensando,

E mirando la turba tale, e tanta,

L'occhio il pensier m'andava desviando.

Primo ec.: e fu il primó pittor ec.: tanto al vivo le descrisse. Ut pictura poesis · A mano a man con lui, a paro con lui Il Mantoan ec.: Virgilio, emulo d' Omero-Ed uno, (Cicerone) al cui passar l'erba fioriva. Dice così il P. per accennare la fiorita eloquenza di Marco Tullio Cicerone - Frutti, le sentenze e i concetti; fiori, gli ornamenti dello stile Questi, cioè Virgilio e Cicerone, sono i Juminari della nostra lingua. Chiama nostra lingua la latina — Del primo luogo. Qui il P. antepone Cicerone a Demostene in merito d'eloquenza, lasciando intender tuttavia esservi molti non contenti di siffatto giudizio Un gran folgore parea, per la veemenza del dire quando arringava · Eschine, il primo de'greci oratori dopo Demostene, lo dica, egli che sen potè ben accorgere quando un giorno appetto al tonar delle parole di Demostene parve senza fiato

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Dove...

o quando, e qual andare innanzi, e qual seguire. Vuol con ciò far intendere il P. ch'egli non sapeva fissar l'ordine e il merito gradual e di quelli che verrà qui sotto menzionando L'occhio il pensier ec.: è anfibologico, ma va spiegato: in tanta moltitudine il pensiero mi sviava l'occhio, che perciò non potea far bene l'ufficio suo.

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