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SONETTO XX.

Ad alcuni suoi amici, dolendosi di non poter esser seco

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Qu

uanto più desiose l'ali spando
Verso di voi, o dolce schiera amica,
Tanto Fortuna con più visco intrica
Il mio volare, e gir mi face errando.
Il cor, che mal suo grado attorno mando,
È con voi sempre in quella valle aprica,
Ove 'l mar nostro più la terra implica:
L'altr'jer da lui partimmi lagrimando.
I' da man manca, e' tenne il cammin dritto;
I' tratto a forza, ed e' d'Amore scorto;
Egli in Gerusalem, ed io in Egitto.
Ma sofferenza è nel dolor conforto:

Chè

per lungo uso, già fra noi prescritto, Il nostro esser insieme è raro e corto.

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L'ali del pensiero Con più vischio intrica, con maggiori osta coli impedisce - Errando, vagando Mal suo grado, a dispetto della Fortuna Ove la terra, il continente, più implica, inviluppa, il nostro mare: ed intende del golfo di Venezia Da lui, dal mio cuore Io tenni la strada da man manca Egli in Gerusalemme, egli ad una terra di libertà, qual era allora Venezia ; ed io in Egitto, ed io in un luogo di schiavitù, qual era Avignone Ma sofferenza cc. È il sed levius fit patientia quidquid corrigere est nefas d'Orazio. Fra noi, fra il mio cuore e me : prescritto, stabilito.

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Nè fatica, nè studio mi pare che meriti questo sonetto; ma quand' anche la meritasse, tengo per fermo che s'altro lume non apparisce, chi non è Merlino non s'apporrà giammai in trovarne il soggetto. lo, quanto a me, (se s' ha da indovinare) credo piuttosto che il P. scriva ad amici, co'quali desiderasse di ritrovarsi, che daʼquali si fosse partito di fresco, come tiene il Castelvetro. Ed è verisimile ch' egli venisse da Roma per la via di Loreto, con disegno di passare a Venezia, e che per cammino gli giungessero lettere, che lo richiamassero ad Avignone. Sicchè torcendo a man manca di Venezia per passarsene a Genova, scrivesse da Bologna o da Ravenna questo souetto agli amici suoi a Venezia. T Tomo II.

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SONETTO XXI.

Ad un amico, mostrandogli coll'esempio d'alcuni antiobi i gravi danni recati dall'ira.

Vincitore Alessandro l'ira vinse,

E fel minore in parte, che Filippo: Che li val, se Pirgòtele, o Lisippo L'intagliar solo, ed Apelle il dipinse? L'ira Tideo a tal rabbia sospinse,

Che morend'ei si rose Menalippo:
L'ira cieco del tutto, non pur lippo,
Fatto avea Silla; all'ultimo l'estinse.
Sal Valentinian, ch'a simil pena

Ira conduce; e sal quei, che ne more,
Ajace in molti, e po'in se stesso forte.
Ira è breve furor; e chi nol frena,
È furor lungo, che 'l suo possessore
Spesso a vergogna, e talor mena a morte.

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L'ira vinse il vittorioso Alessandro, e lo fece inferiore in parte a Filippo suo padre, il quale meglio di lui seppe frenar l'ira― Che li val, che gli giova, l'essere stato scolpito, e dipinto soltanto dai tre nominati eccellenti artisti, com' ei l' avea comandato, quando si lasciò vincere talmente dall'ira, che commise azioni crudeli, le quali oscurarono la sua gloria? Tideo, ferito a morte da Menalippo, l'uccise, e poscia per rabbia gli rose il teschio- Non pur lippo, non che losco Sal, lo sa. Silla e Valentiniano morirono ambedue d'uno sbocco di sangue sopravvenuto loro per eccessivo impeto di collera - Ajace adirato perchè le armi d'Achille fossero state da' Greci aggiudicate ad Ulisse, come più degno di possederle, venne in tanto furore che s'uccise Ira è breve ec., traduzione dell' Ira furor brevis est; animum rege, qui nisi paret, imperat, d' Orazio Il suo possessore, l'iracondo.

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Ad eccezione dell'ultimo ternario, che quantunque tolto da altri, ha qualche merito, tutto il resto è prosa effettiva, dice il Muratori. M.

SONETTO XXII.

Risponde ad un sonetto del Vescovo Colonna, già morto, col
quale questi s'era congratulato seco della sua incoronazione.
Mai non vedranno le mie luci asciutte,
Con le parti dell'animo tranquille,
Quelle note, ov' Amor par che sfaville,
E Pietà di sua man l'abbia construtte,
Spirto già invitto alle terrene lutte,

Ch'or su dal Ciel tanta dolcezza stille,
Ch'allo stil, onde Morte dipartille,
Le disyiate rime hai ricondutte.
Di mie tenere frondi altro lavoro

Credea mostrarte: e qual fero pianeta
Ne 'nvidiò insieme? o mio nobil tesoro,
Chi 'nnanzi tempo mi t'asconde, e vieta?
Che col cor veggio, e con la lingua onoro,
E 'n te, dolce sospir, l'alma s'acqueta.

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Mai ec. O spirto già invitto ec. io non vedrò mai ad occhi asciutti, nè senza commozione d'animo, quelle note, que' versi del tuo Son. ove ec. - Costrutte, composte — Già invitto alle terrene lotte . Ardi affiggere pubblicamente in Roma, tenuta da Lodovico il Bavaro, la scomunica del Papa contro di lui - Che hai ricondotte le mie rime allo stile di dolcezza, dal quale la morte di Laura le avea disviate, e allontanate - Altro lavoro di mie novelle frondi, (alludendo alla corona d'alloro ricevuta di fresco in Campidoglio) altro parto del mio ingegno poetico che questo meschino sonetto. Forse intende del Canzoniere, forse del poema dell'Affrica Qual fero pianeta, qual crudele destino E vieta a me di vederti? Dolce cagione de'miei sospiri.

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Risponde a Giacopo Colonna vescovo di Lombes, che gli scrisse un son. in congratulazione quando fu coronato; ma non avendo il P. potuto

rispondergli in vita, gli rispose dopo ch'egli fu morto. Questo è quel Giacopo Colonna, fratello del cardinal Giovanni, che nella coronazione di Lodovico il Bavaro comparve in Roma, ed in nome di Papa Giovanni lo scomunicò, e senza aver riguardo che il Bavaro fosse accerchiato da un esercito, e Roma in suo potere, lesse la scomunica in pubblico, e di sua mano l'affisse sulla piazza di San Marcello, nè avendo altro seguito che di cinque o sei compagni, si salvò in Prenestina, e di la in Avignone. Ma è sonetto di tenere frondi, nè merita che alcuno si metta ad anatomizzarlo. T.

Riferirò qui sotto il sonetto del Colonna; e non ti scandalezzare nè di sí miserabil proposta, nè del Poeta nostro, che non so come vi trovasse dentro tanta tenerezza d'affetto e di pietà. Ma è sonetto di risposta per le rime, e tanto basta. M.

GIACOMO COLONNA A M. F. PETRARCA

» Se le parti del corpo mio distrutte,
E ritornate in atomi e faville
Per infinita quantità di mille
Fossino lingue, ed in sermon ridutte;
E se le voci vive, e morte tutte,

Che più che spada d' Ettore, e d'Achille
Tagliaron mai chi risonare udille,
Gridassen come verberate putte;
Quanto
lo corpo e le mie membra foro
Allegre, e quanto la mia mente lieta,
Udendo dir, che nel Romano foro
Del novo degno Fiorentin Poeta
Sopra le tempie verdeggiava alloro;
Non poterian contar, nè porvi meta. »

FINE DEL CANZONIERE

INDICE

DELLE LEZIONI MARSAND

STATE RIFIUTATE IN QUESTO SECONDO VOLUME

Pag. 7

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(Le rifiutate sono in corsivo; le sostituite,
in carattere tondo)

Di che, morte, altro bene omai non spero:
Di che morte, altro bene omai non spero:

È
cosa troppo patente, che morte è qui accusativo, e non già
vocativo; ne conosco esempio dell'interpunzione Marsand in
alcun' altra edizione del Canzoniere.

Il mio nocchier; e rotte arbore, e sarte;
Il mio nocchier; e rotto arbore, e sarte;

Quantunque possa stare benissimo e rotte arbore, e sarte, amo meglio la seconda lezione, avvalorata da molti codici della Magliabechiana, come per es. il Num. 1, 43, 44, 841 P. VII; e soprattutto dal 281, sperimentato più volte di sanissima lezione; e da parecchi altri ancora della Riccardiana, come il 1136, 1143, ec. ec.

Che piagava 'l mio core, ancor l'accenna,
Che piagava 'l mio core, e ancor l'accenna,

Cosi hanno moltissimi codici della Riccardiana (1135, 1136, 1143, 1145), e della Magliabechiana ancora; cosi sta scritto nell' autografo della Vaticana, riportato dal Muratori; cosi vuol che si legga la giusta sintassi.

Cangiati i volti, e l'una e l'altra coma.
Cangiati i volti, e l'una e l'altra chioma.

Lascio agli amatori dell'anticaglie il defunto coma, vocabolo che ora altro più non s'usa che tutt' al più in significato di virgola, e leggo chioma con parecchi codici, ed edizioni antiche.

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