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padre mi procurerà i mezzi di uscire, come mi ha promesso, io vivrò grato e rispettoso, come qualunque ottimo figlio, se no, quello che doveva accadere e non è accaduto, non è altro che differito. Mio padre crede ch'io da giovinastro inesperto non conosca gli uomini. Vorrei non conoscerli, così scellerati come sono. Ma forse sono più avanti ch'egli non s'immagina. Non creda d'ingannarmi, che la sua dissimulazione è profonda ed eterna; sappia però ch'io non mi fido di lui, più di quello ch'egli si fidi di me. 1 Si vanti, se vuole, d'avermi ingannato, dicendomi a chiare note, ch'egli non volendomi forzare in nessunissima guisa, non facea nessun passo per intercettarmi il passaporto. Mi parve di vedergli il cuore sulle labbra, e feci quello che non avea fatto da molti anni: gli prestai fede, fui ingannato, e per l'ultima volta.

La requisitoria non si ferma qui. Giacomo accusa principalmente Monaldo di non averlo mai compreso. E continua :

Domando se questo è il premio che mi doveva aspettare; domando se c'è un altro padre nella stessa Recanati, in circostanze molto più incomode del mio, che avendo un figlio delle speranze ch'io dava, non avesse fatti tutti gli sforzi possibili per procurargli quello che a chiunque mi conosce è sembrato naturale e necessario, fuorchè a mio padre..... E se mio padre, aborrendo ogn'idea di grande e di straordinario, si pente d'avermi lasciato studiare, si duole che il cielo non m'abbia fatto una talpa, e in ogni modo, non solamente non mi concede niente di straordinario, ma mi nega quello che qualunque padre in qualunque luogo si fa un dovere di concedere a quei figli che mostrano un solo barlume d'ingegno, e vuole risolutamente ch'io viva e muoia come i suoi maggiori, sarà ribellione di un figlio il non sottoporsi a questa legge?

La letteratura italiana ha poche pagine di prosa che possano stare a paro di questa del malaticcio giovanetto di ventun anni, per calore, per energia, per forbitezza, per trasparenza. Sarebbe bastato molto meno per metter dalla parte del grande figliuolo i lettori, già ben disposti dai versi immortali. E invece la lettera, ch'è lunghissima e d'una dialettica sempre calda e serrata, ha una chiusa ancor più angosciosa. Disfogata la piena dell'amarezza, l'infelicissimo ribelle si ripiega in una commovente stanchezza.

1 In una copia di questa lettera, di mano della Paolina, si legge anche peggio: «Se la sua dissimulazione è profonda ed eterna, sappia però ch'io non mi fido di lui, più che mi fiderei d'un nemico ».

Io non vorrei mai scordarmi de' miei doveri, io vorrei essere infelice io solo; e vi giuro che se qualche cosa mi turbava nella risoluzione ch'io aveva formata, non erano nè i pericòli a cui m'esponeva, nè i biasimi altrui, de' quali non fo nessun conto, nè la morte che i disagi e la povertà m'avrebbero procurata ben presto con mia consolazione, ma il solo pensiero di dar disgusto ai miei genitori. Io ho sempre amato mio padre e l'amerò; e mi duole che voglia trattarmi come gli altri uomini, e creda l'inganno più vantaggioso con me della schiettezza, mentre mi sembra d'aver dato prove sufficienti del contrario. Ripeto ch'io non desidero se non d'essergli sempre riconoscente e rispettoso, e certamente sarò tale nel fatto, se non potrò anche nelle apparenze. Io non mi pento della condotta passata, nè bramo cangiarla. Solamente prego che voglia aver qualche riguardo alle inclinazioni mie, che ora non sono più mutabili naturalmente, e contrariate mi faranno infelice fin ch'io viva, e forse peggio ch'infelice1.

Tra i preparativi per la fuga, Giacomo aveva pensato anche a scrivere una lettera di addio al padre e un'altra al fratello Carlo. In quella, non è il figlio che prende congedo, bensì il conte Giacomo che chiede ragione al conte Monaldo dell'uso da lui fatto della potestà paterna. Comincia: « mio signor padre », e va avanti facendo uno spietato esame di quanto costui avrebbe avuto il dovere di fare e non avea fatto. Accenna a un certo piano di famiglia » che Monaldo avrebbe immaginato, e, alludendo anche al fratello più caramente diletto, continua:

Io sapeva bene i progetti ch' Ella formava su di noi, e come per assicurare la felicità di una cosa ch'io non conosco, ma sento chiamar

1 Questa lettera, per riguardi verso la famiglia superstite, non fu compresa nelle prime edizioni dell' Epistolario. Apparve primamente nella Nuova Antologia del 15 febbraio 1879, con un breve commento del prof. G. Piergili. Ricomparve poi più tardi, nel 1880, per cura dello stesso editore, nell'opuscoletto: Le tre lettere di G. L. intorno alla divisata fuga dalla casa paterna (Torino e Roma, Loescher). Il Piergili l'aveva ritrovata «fra le più riposte carte che furono sempre gelosamente serbate in famiglia », di carattere della Paolina, «la quale solea scrivere pel fratello, malato d'occhi e di stomaco; ove si veggono ancora le correzioni di mano di lui ». Dopo, venne in luce anche l' originale, posseduto dai Broglio di Macerata, che differisce in qualche punto dalla minuta; e questo ora è ristampato nell' ultima edizione dell' Epistolario. Dal carteggio inedito di Monaldo col Broglio, il Mestica potè cavare nuovi particolari di quel curioso episodio domestico. Cfr. G. L. ei Conti Broglio d'Ajano, nella « Rivista d'Italia» del 15 settembre 1898.

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casa e famiglia, Ella esigeva da noi due il sacrifizio, non di roba nè di cure, ma delle nostre inclinazioni, della gioventù, e di tutta la nostra vita.

Se avesse avuto visceri di padre, avrebbe dovuto comprendere che quei disegni erano inattuabili, e che a lui, Giacomo, l'aria e la vita di Recanati riuscivan micidiali.

Non tardai molto ad avvedermi che qualunque possibile e immaginabile ragione era inutilissima a rimuoverla dal Suo proposito, e che la fermezza straordinaria del Suo carattere [leggi: caparbietà!], coperta da una costantissima dissimulazione e apparenza di cedere [leggi: ipocrisia!], era tale da non lasciar la minima ombra di speranza.... Io so che la felicità dell'uomo consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo. Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero. So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. E perchè la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata dalla disperazione, perciò non mi sgomenta che la mia cominci così. Voglio piuttosto essere infelice che piccolo, e soffrire piuttosto che annoiarmi; tanto più che la noia, madre per me di mortifere malinconie, mi nuoce assai più che ogni disagio del corpo. I padri sogliono giudicare i loro figli più favorevolmente degli altri, ma Ella per lo contrario ne giudica più sfavorevolmente di ogni altra persona, e quindi non ha mai creduto che noi fossimo nati a niente di grande: forse anche non riconosce altra grandezza che quella che si misura coi calcoli, e colle norme geometriche. Ma quanto a ciò molti sono d'altra opinione; quanto a noi, siccome il disperare di sè stessi non può altro che nuocere, così non mi sono mai creduto fatto per vivere e morire come i miei antenati.

Tante parole, tanti colpi di lancia al cuore del conte padre! Al quale dice pure, e con più ragione:

È piaciuto al cielo per nostro gastigo che i soli giovani di questa città che avessero pensieri alquanto più che recanatesi, toccassero a Lei per esercizio di pazienza, e che il solo padre che riguardasse questi figli come una disgrazia, toccasse a noi.

E conclude con una ripresa affettuosa, che, presso noi posteri, non doveva nuocer meno alla riputazione di Monaldo.

Mio caro signor padre, se mi permette di chiamarla con questo nome, io m'inginocchio per pregarla di perdonare a questo infelice

per natura e per circostanze. Vorrei che la mia infelicità fosse stata tutta mia, e nessuno avesse dovuto risentirsene, e così spero che sarà d'ora innanzi. Se la fortuna mi farà mai padrone di nulla, il mio primo pensiero sarà di rendere quello di cui ora la necessità mi costringe a servirmi. L'ultimo favore ch'io Le domando, è che se mai Le si desterà la ricordanza di questo figlio che L'ha sempre venerata ed amata, non la rigetti come odiosa, nè la maledica; e se la sorte non ha voluto ch' Ella si possa lodare di lui, non ricusi di concedergli quella compassione che non si nega neanche ai malfattori.

Povero figliuolo! Certo, ci si stringe il cuore a leggere una simile lettera; ma saremmo ingiusti e parziali se non pensassimo altresì al dolore ch'essa era destinata a produrre nel cuore d'un padre, il quale non era, sì, scevro di colpe, ma a modo suo idolatrava quello soprattutto dei suoi figliuoli, ch'ei chiamava la gemma più preziosa del bel serto della sua gloria. Il 1° giugno 1828 gli scriveva:

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...voi, caro Giacomo mio, che mi deste per primo il nome di padre, che avete sul mio cuore il diritto di precedenza, che lo conservate in fatto con la vostra condotta, e che siete la gloria della famiglia sulla terra, e ne sarete la corona nel Cielo...

Giacomo, ch'era profondamente buono, sentì come un rimorso anticipato del passo che stava per fare; e nel pregare il fratello di consegnare la lettera al padre, gl'ingiunge:

Domanda perdono a lui, domanda perdono a mia madre in mio nome. Fallo di cuore, che te ne prego, e così fo io collo spirito. Era meglio (umanamente parlando) per loro e per me, ch'io non fossi nato, o fossi morto assai prima d'ora. Così ha voluto la nostra disgrazia.

III.

Monaldo Leopardi e la sua Autobiografia.

La voce dell'accusatore, che abbiamo ascoltata fin qui, è potente ed affascinatrice, passionata e elegantissima; ma noi non vorremo investirci, << per affetto al figlio, di tutti i

1 Cfr. D' OVIDIO, Saggi critici, Napoli 1878, p. 658 ss.

rancori e le bizze di Giacomo verso il genitore ». Così han pur troppo fatto parecchi dei critici ed ammiratori del poeta: non tutti però, e tra questi il De Sanctis. Il quale, com'ebbe già a ricordare il D'Ovidio ', fu sempre, nonostante la vėnerazione infinita pel poeta di cui era stato « il primo vero interprete » alieno dal farne sue << tutte le passioncelle domestiche »; e in una lezione tenuta all'Università di Napoli nel marzo del 1876, « diceva ai giovani, che ne rimasero un po' sorpresi e come scontenti: Guardiamoci dal giudicare il padre dando retta ai nervi del figlio!». Il De Sanctis non s'affidava, nel far questo mònito, che alla sua « natural dirittura dei giudizi storici e letterari »; ma tutto ciò che dopo d'allora è venuto a conoscenza del pubblico circa la casa Leopardi, ha confermato quanto egli aveva giustamente e acutamente intuito.

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Monaldo, oltre il resto, era un grafomane. Una volta disse al cognato Antici ch'ei si riprometteva di « scrivere su tutto tutto »; ma s'accorse subito egli stesso che la « bomba era un po' grossa ». Non ogni cosa che scrisse riuscì a stampare; eppure, i torchi gemettero per parecchie delle sue opere poetiche, storiche, filosofiche, economiche, ascetiche, politiche, polemiche, di qualcuna delle quali si moltiplicarono anzi in breve le edizioni. Fu anche giornalista, e dei più fecondi e violenti'; e, campione accanito e intransigentissimo dei diritti del trono e dell'altare, trovò perfino il modo di farsi condannare dalla Congregazione dell' Indice!

Tra' suoi manoscritti ne fu trovato uno che ha per noi una speciale importanza : l'Autobiografia. Essa non va oltre

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1 Nella Napoli letteraria del 17 febbraio 1884; e cfr. ora F. DE SANCTIS, Studio su G. L., opera postuma, curata da R. BONARI, Napoli 1885, p. 173.

2 Cfr. l'arguto e notevole opuscolo di RAFFAELE BONARI, I genitori di G. L., Napoli 1886.

3 Cfr. CAMILLO ANTONA-TRAVERSI, Monaldo giornalista, opuscolo nuziale, Roma 1886.

4 Fu pubblicata, di sull' autografo conservato nella biblioteca dei Leopardi, dal prof. A. Avòli, a Roma, nel 1883. Rimase perciò ignota, o nota solamente in parte, a quanti fino a quell'anno ebbero ad occuparsi di Monaldo: al conte SEVERINO SERVANZI COLLIO, che pubblicò

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