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il gennaio 1802, benchè Monaldo la cominciasse a stendere nel 1820. L'uomo vi si descrive ingenuamente e sinceramente, con tutti i suoi grandi difetti e con le virtù che non gli mancavano. Curioso tipo anche in questo: a voce, delle cose sue familiari ei non discorreva se non con la moglie e col cognato, mantenendo con gli altri un severo ed orgoglioso riserbo; con la penna in mano, diventava invece loquace e sboccato, mettendo a parte i suoi lettori immaginarii d'ogni cosa più intima. Par quasi che, scrivendo, l'agghindato aristocratico si piaccia di porsi in pantofole e in maniche di camicia.

Certo, se non si trattasse del padre di Giacomo, il libro non avrebbe uguali attrattive. Perchè una narrazione di tal genere possa riuscir dilettevole, conviene o che il protagonista e scrittore sia di quegli uomini la cui storia interessi per la sua propria singolarità, com'è dell'Alfieri, del Cellini, del Duprè; o che i casi tra cui s'è trovato siano altamente epici e drammatici, com'è del Settembrini e del Pellico. Tuttavia codesto hidalgo delle Marche, il quale a diciott'anni si veste tutto di nero, « e così » », racconta, << ho vestito sempre e vesto, sicchè chiunque non mi conobbe fanciullo, non mi vide coperto con abiti di altro colore >> '; che si vanta d'aver portata « la spada ogni giorno, come i cavalieri antichi, e fui », osserva, « probabilmente l'ultimo spadifero d'Italia, finchè nel 1798, sotto il Governo repubblicano,

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l'opuscolo Opere e scritti del conte M. L., Macerata 1847; al prof. A. D'ANCONA, La famiglia di G. L., nella Nuova Antologia del 15 ottobre 1878; all' AULARD, Un guelfe au XIXe siècle, nella Revue politique et littéraire del 14 giugno 1879. Non ne fecero largo uso neppur la contessa TERESA TEJA LEOPARDI, seconda moglie di Carlo, che nel 1881 a Parigi, in francese, e nel 1882 a Milano, tradotte da lei medesima, pubblicò alcune Note biografiche sopra L. e la sua famiglia; e il professor G. PIERGILI, Il conte M. L., nella Nuova Antologia del 15 febbraio 1882.

1 Una follia codesta che il reazionario conte marchigiano ebbe comune con l'aborrito conte Alfieri. Il quale pure narra di sè (Vita, ep. IV, cap. 30): Del rimanente poi bastantemente sazio e disingannato delle cose del mondo, sobrio di vitto, vestendo sempre di nero, nulla spendendo che in libri, mi trovo ricchissimo... ».

questo costume nobile e dignitoso decadde affatto »; che, fanatico sanfedista, pur dopo la grande Rivoluzione credeva non solo possibile, ma sospirava, la restaurazione del Comune guelfo ; che ancora nel 1832 definiva la patria « precisamente quella terra nella quale siamo nati, e in cui viviamo insieme con gli altri cittadini, avendo comuni con essi il suolo, le mura, le istituzioni, le leggi, le pubbliche proprietà e una moltitudine d'interessi e di rapporti », onde, a parer suo, si fa male a chiamar patria la « nazione nella quale siamo nati e viviamo....., perchè coi nazionali stranieri (!) non abbiamo comunità d'interessi, d'istituzioni e di leggi, e non siamo legati con essi da quasi nessuno di quei vincoli e di quei rapporti che stringono fra di loro li cittadini d'una medesima patria »; che in una lettera del 1826, esortando l'italianissimo figliuolo a chiamarsi nella stampa delle sue opere recanatese, soggiungeva: << io poi ne vedrò alquanto soddisfatto quello oramai inutile amore di patria, che non so abbandonare, perchè avuto in retaggio da' miei cari maggiori, e ne vedrò pure un po' afflitta la vicina ed emula Macerata, che non credo peccato di mortificare così »; -- che, narrando del passaggio di Napoleone per Recanati, « velocemente a cavallo, circondato da guardie le quali tenevano i fucili in mano col cane alzato >>> può vantarsi che tutti corsero a vederlo, ma « io non lo vidi, perchè, quantunque stessi sul suo passaggio nel palazzo comunale, non volli affacciarmi alla finestra, giudicando non doversi a quel tristo l'onore che un galantuomo si alzasse per vederlo ›; che, in alcune considerazioni sulla Storia d'Italia del Botta, parlando del Galilei uscì a dire ch'egli sperava nella comparsa d'un uomo << il quale, ridendo di lui com'egli ha riso dei filosofi suoi antecessori, restituisca alla terra l'antico onore, mettendola nel centro dell'universo e liberandola dal fastidio

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di tanti moti »; codesto Don Chisciotte o Don Ferrante che, chiuso nel guscio dell'amato borgo natio, vuol giudicare di là del movimento letterario, politico, filosofico dell'Europa intera, e s'arrovella perchè nel resto del mondo le cose si ostinano a non andare com'egli vorrebbe: pure una sua propria e non piccola importanza, quale rappresentante tipico d'una molto caratteristica classe di ritar

ha

datarii. Egli fu, come lo defini con l'usata felicità il D'Ovidio, < di quegli uomini magnanimi, rari in ogni tempo e ammirabili in ogni partito, i quali sono mossi da persuasioni sincere e profonde, quali che esse sieno, e tendono costantemente ad un fine alto e disinteressato, affrontando per esso mille danni, pericoli, travagli, dolori, inimicizie, ingratitudini ».

L'Autobiografia è buttata giù alla buona, in una forma che non raggiunge mai la sciatteria, ma che riman sempre molto di qua dalla forbitezza; che risente anzi di quel francesismo di stile e di vocaboli ch'era venuto di moda, e di quegl'idiotismi marchigiani soavemente risonanti all'orecchio ed al cuore del marchigianissimo Monaldo. Il quale, col suo aborrimento pei Francesi (e anche in questo s'accordava coll'altro conte misogallo, con quel «briccone si ma pur bravo Alfieri »!), è da giurare che, se avesse fiutato il gallicismo, si sarebbe sforzato di diventar più << cruschevole » de' figli! Il racconto procede a volte sconnesso, e accanto alla notiziola ghiotta, spesso trova posto l'aneddoto insignificante o il pettegolezzo, una disquisizione morale o una tirata politica. Da ogni pagina poi trapela l'affetto indomabile per la piccola patria, cara a lui quanto invisa a Giacomo. 1

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S'intende com'ei si fosse dato molto da fare per compilare l'albero genealogico dei Leopardi; ed ebbe l'ineffabile sodisfazione di mettere in sodo che essi discendono in linea

1 Il povero Giacomo non trovava da ammirarvi se non la perfetta e soave pronunzia. Scrive al Giordani, il 30 maggio 1817: « E quanto all'accento, Le dirò del mio Recanati cosa che Ella dovrà credere a me, perchè della patria potrò, per tropp' odio, dir troppo male (e non so se questo pur possa), ma dir troppo bene, per troppo amore, non posso certo. Ella non può figurarsi quanto la pronunzia di questa città sia bella. È così piana e naturale e lontana da ogni ombra d'affettazione, che i Toscani mi pare, pel pochissimo che ho potuto osservare parlando con alcuni, che favellino molto più affettato, e i Romani senza paragone.... E questa pronunzia che non tiene punto nè della leziosaggine toscana nè della superbia romana, è così propria di Recanati che basta uscir due passi del suo territorio per accorgersi di una notabile differenza, la quale in più luoghi pochissimo distanti, non che notabile, è

somma.....

!

retta da un Attone morto il 1207. Iddio l'abbia in gloria! Tuttavia codesti antenati, bisogna confessarlo, non valsero gran che, specie in letteratura; e Monaldo dichiara con dignitosa modestia: « non so che la famiglia nostra avesse mai soggetti letterati, ma non ha mai dominato in essa lo spirito dell'ignoranza, e tutti i miei antenati ebbero più o meno qualche coltura». Molto esigua però, se si pensa che in casa egli, che doveva poi raccogliervi una biblioteca senza pari nella provincia1, non trovò se non « qualche centinaio di tomi, adatti agli usi giornalieri ». Honny soit qui mal y pense!

Nemmen la contea era molto antica: il primo che n'ebbe il titolo fu l'avo del poeta, un Giacomo anch'esso. Nome che si direbbe infausto pel povero Monaldo: giacchè s'ei fu mediocremente stimato da Giacomo figliuolo, fu addirittura vilipeso da Giacomo padre. Questi venne a morte curiosa coincidenza: tanto più che in casa Leopardi si era longevi! a soli trentanove anni, quando il primogenito ne contava appena quattro; eppure, nel suo testamento, avrebbe voluto posporlo al secondogenito! Non so, osserva Monaldo, « quale ragione poteva suggerirgli quel proponimento, ma credo che se viveva con me alcuni altri anni, non avria sentito vergogna di essermi padre ». A meno che l'anima del nonno non rivivesse nel prodigioso nipote! Da giovinetto, nei giuochi, a passeggio, allo studio, ei voleva sempre sopraffare fratelli e compagni; e «< il fatto sta», confessa, « che la natura o l'abitudine a sovrastare mi è sempre rimasta, e mi adatto malissimo, anzi non mi adatto in modo veruno, alle seconde parti. Voglio piegarmi, voglio esser docile, rimettermi a ta

1 Giacomo narrava in una delle primissime lettere al Giordani (30 aprile 1817), dipingendogli il natio borgo selvaggio »: « Delle mie cose nessuno si cura, e questo va bene; degli altri libri molto meno: anzi Le dirò senza superbia che la libreria nostra non ha eguale nella provincia, e due sole inferiori. Sulla porta ci sta scritto ch'ella è fatta anche per li cittadini, e sarebbe aperta a tutti. Ora quanti pensa Ella che la frequentino? nessuno mai ». L'epigrafe sulla porta dice:

FILIIS AMICIS CIVIBUS | MONALDUS DE LEOPARDIS |
BIBLIOTHECAM A. M. DCCCXII,

cere; ma in sostanza tutto quello che mi ha avvicinato ha fatto sempre a mio modo, e quello che non si è fatto a modo mio, mi è sembrato malfatto ». Come in questo ritratto riconosciamo il tormentatore di Giacomo! Gli è che Monaldo si credeva e si proclamava, tranquillamente, un uomo perfetto e infallibile. Scrive:

Non vorrei adularmi, e non ho interesse alcuno per farlo; ma in verità mi pare che il desiderio di vedere seguita la mia opinione non sia tutto orgoglio, bensì amore del giusto e del vero. Ho cercato sempre con buona fede quelli che vedessero meglio di me, ed ho trovato persone saggie, persone dotte, persone sperimentate; ma di ingegni quadri da tutte le parti e liberi da qualunque scabrosità ne ho trovati pochissimi, e ordinariamente in qualche punto la mia ragione, o forse il mio amor proprio, mi hanno detto: tu pensi e vedi meglio di quelli!

Avendo letto in Seneca come ogni uomo abbia la sua parte di pazzia, egli si die' a ricercare in che consistesse la sua. Non avrebbe dovuto andar molto lontano; ma fruga e rifruga, lo credereste?, non la trovò! E « allora mi è venuta la tentazione », conclude, << di credere che la mia mente fosse superiore a molte, non già in elevazione, ma in quadratura!».

Monaldo fu educato in casa. Ebbe a precettore un exgesuita ed ex-gentiluomo nato nell'America settentrionale, don Giuseppe Torres. S'indovina l'italiano, ma questi insegnava orrendamente tutto: « l'ottimo Torres fu l'assassino degli studi miei, ed io non sono riuscito un uomo dotto, perchè egli non seppe studiare il suo allievo, e perchè il suo metodo di ammaestrare era cattivo decisamente ». Non indaghiamo quel che altrimenti l'alunno sarebbe riuscito; ma il metodo del maestro, ch'egli espone, è davvero tale da farci inorridire. << Nell'età di anni quattordici », soggiunge il mal capitato, « dissi fra me che, avendo figli, non avrei permesso ad alcuno di straziarli tanto barbaramente; e ricordo pure di aver pianto sopra me stesso per il danno involontario che mi arrecava un uomo degno altronde di tanta stima ». Difatto, padre, egli curò poi scrupolosamente ed egregiamente l'educazione dei figliuoli, così da potere scrivere, il 3 aprile del 1820, col cuore amareggiato dalla ribellione di Giacomo, all'avvocato Pietro Brighenti :

G. LEOPARDI, I Canti.

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