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Lo sconvolgimento fatale della ragione umana, che ha disonorata la nostra età, mi fece ravvisare malcauto l'affidarli ad estera educazione; e l'affetto mio sviscerato non mi permetteva allontanarli da me. Li ho educati io medesimo, e li ho fatti erudire in casa mia quanto meglio ho saputo e potuto. Ho sacrificata per essi tutta la mia gioventù; mi sono fatto il compagno dei loro trastulli, l'emulo dei loro studi, e niente ho lasciato di quanto poteva renderli contenti e grati. Rimasi forse troppo contento dei loro progressi, e per alcun tempo lo fui della loro riconoscenza e della loro condotta.

Alla educazione sua invece nessuno dei suoi parenti era stato al caso di pensare seriamente. La madre apparisce una vanèsia, disadatta massaia e inetta educatrice; e gli zii, buona gente, ma incuriosa e fatua. Così, a diciott'anni, egli non volle più saperne di studi. Il mondo perdette, ohimè, un dotto, ma, a sentir lui, guadagnò in compenso un uomo assennato e pratico. Non si può non sorridere leggendo:

Ho aperto infinità di libri, ho studiato infinità di cose, ma tutto senza scopo, senza guida e senza profitto; sicchè, arrivato agli anni maturi e aperti gli occhi, ho confessato a me stesso che io non so cosa alcuna, e mi sono rassegnato a vivere e morire senza esser dotto, quantunque di esserlo avessi nudrita cupidissima voglia.... Quanto apparisce in me non è dottrina e letteratura, ma prudenza, esperienza, buon senso, con qualche tintura apparente di scienza, perchè alla fine, a forza di leggere, qualche cosa mi sarà rimasta nella mente.

Verso don Torres e verso i gesuiti nell'animo del pio Monaldo non rimase rancore. Già per costoro i Leopardi avevano sempre avuta predilezione. « Fino quasi dai giorni di sant'Ignazio », essi avevan fondato e dotato in Recanati un collegio gesuitico, disciolto poi soltanto nel 1773 dalla bolla di Clemente XIV. E codesta persecuzione giovò, come suole, ai perseguitati: « le reliquie disperse di quell' Ordine illustre e straziato » divennero « l'ordinario rifugio di chiunque cercava un uomo saggio, dotto e dabbene ». Ed è incredibile, assicura il conte, << quanto vantaggio recassero alle nostre provincie questi esuli rispettabili »; non alla cultura, davvero! Egli li ammirava tanto, che si compiaceva di chiamar sè stesso « un gesuita in veste corta ». Don Torres restò in casa Leopardi nientemeno che trentasette anni, fino al novembre del 1821, quando il fido pupillo potè chiudergli gli occhi. Giacomo contava allora ventitrè anni. E chi sa

quante delle sue sventure non rimontino agl'insegnamenti e ai suggerimenti del vecchio gesuita! « Questi», dichiara Monaldo, « è stato non già il mio precettore soltanto, ma il mio padre ed amico, e a lui devo la mia educazione, i miei principii, e tutto il mio essere di cristiano e di galantuomo ». Ahimè!

A sedici anni, il contino senti la prima volta la battaglia d'amore: i Leopardi erano anche in questo precoci! Ed è il momento di farne la personale conoscenza. «Ero », confessa, « sano senza essere robusto, nè alto nè basso, non bello, ma senza alcuna bruttezza notevole ». Perciò non vantò mai la bellezza fisica a scàpito della spirituale. Sdegnò di seguire la moda. « Al mio sarto », racconta, << ho lasciato sempre la cura di tagliarmi gli abiti a suo modo, ordinandogli solo di evitare qualunque ombra di affettazione, e mai ho saputo, come adesso non so, in qual foggia si vestano gli uomini di buon gusto ». Altero « per educazione e per natura», voleva che anche la foggia del vestito contribuisse a dargli dignità: « se avessi avute altre inclinazioni, bisognava loro resistere, o cambiare vestiario, giacchè, con la spada al fianco e sempre in abito di parata, non si poteva cadere in bassezze, anche volendolo ». Gli è che nell'uguaglianza del vestiario ei vedeva, e non a torto, un altro attentato alla sua nobile casta.

Coloro che hanno immaginato di sconvolgere gli ordini della società e di rovesciarne le istituzioni più utili e rispettate, hanno incominciato dall' eguagliare il vestiario di tutti i ceti, raccomandando la causa loro alla moda. Finchè i cavalieri portavano la spada al fianco, vestivano abiti ricamati e camminavano col servitore appresso, e finchè le dame si mostravano col corredo delle regine, la filosofia (!) poteva gridare a sfiatarsi; ma il popolo non s' induceva a credersi eguale a quelli che ammirava per sentimento, rispettava per abitudine, e lasciava grandeggiare per necessità.

Nel 1792, quando cominciò a provare il pizzicor d'amore, non ancora aveva assunto quel perpetuo abito da funerale. In quell'anno dovè accompagnare la madre a Pesaro; e lì, in casa dell'ava marchesa Mosca, i suoi occhi s'incontrarono in quelli d'una contessina « superstite ed erede unica della sua famiglia ». S'intende: « eguali di condizioni e di età » racconta non senza grazia di scrittore Monaldo,

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spesso vicini al passeggio, al tavolino e al circolo, io m'innamorai perdutamente di lei, e credo che essa non restasse indifferente. Tutti conoscevano il nostro amore, e tutti ne parlavano; ma noi, comunicandocelo collo sguardo solo, non ebbimo il coraggio di palesarcelo con la voce, e si osservò costantemente un silenzio lungo, singolare e inopportuno. Il romperlo non era la sua parte, ed io che lo risolvei mille volte fra me stesso, e che non temevo di vedere sprezzate le mie dichiarazioni, ero poi nell'atto tanto lontano da quell'ardire, quanto lo sarei adesso dal recarmi sulla strada pubblica ad assassinare i passeggieri.

La nonna si lasciò rattenere dal sospetto che altri non l'accusasse di far troppo gl'interessi del nipote; la madre « non era tagliata al maneggio degli affari »; ed egli ci mise tanta goffaggine, che tutto andò a monte.

Una sera, un cavaliere pronto e gioviale, sedendo vicino alla damina, mi chiamò e mi disse alla sua presenza: Poichè tutti lo sanno, confessami qui che tu fai all'amore colla contessina Teresa. - Io, con le brace nel volto, dissi: - Non è vero! -e fuggii. La giovane se ne offese, e quel momento, che poteva legarci per sempre, fu la tomba della nostra corrispondenza.

Qualche anno più tardi, quando si vide a capo della famiglia e, non solo padrone delle avite sostanze, ma« pieno zeppo di debiti e incamminato a rovina totale », ripensò a pigliar moglie. Era tempo da far sul serio, ...e perciò si pose nelle mani d'un sensale! Questi, che già lo aveva aiutato a contrarre i debiti, gli suggeri, mercè una buona mancia, << una damina di Bologna, di famiglia illustre e con dote cospicua ». E nel settembre del 1796 egli si mise in viaggio per andare a conoscere la donna del suo cuore! Per via, un amico che lo accompagnava, il conte Gatti, intimo della famiglia di lei, lo veniva persuadendo << che le bellezze son passaggiere e le virtù consolano per tutta la vita » : un'antifona molto morale, ma promettente poca estetica! « Io gli davo ragione », OSserva Monaldo, « perchè inclinavo alla filosofia; ma nè egli nè io riflettevamo che anche la filosofia deve proporzionarsi all'età, che un volto non dispiacente è una filosofia persuadentissima per un giovane di vent'anni, e che un tratto poco geniale abbatte le forze di qualunque argomento più sodo ». Giunti a Bologna,, non gli si permise di veder subito la damina, bensì il padre di lei, col quale fissaron la dote

in ventimila scudi, e il giorno dell'incontro. Questo doveva avvenire in casa del principe Lambertini, zio della Diana. Il conte Gatti persuase l'amico che in simili casi non bisogna << lasciar la brigata sospesa, con tormento e noia di tutti; perciò se la sposa non gli spiaceva, cavasse subito con disinvoltura il fazzoletto bianco dalla saccoccia, ed egli avrebbe pensato al resto ». Il sultanuccio, in attesa, stringeva in tasca il fazzoletto fatale. Finalmente arriva la Diana. « Un inchino, due parole, un'occhiata.... e il fazzoletto è fuori ». L'amico prudente « dice alla giovane qualche cosa all'orecchio, e poi tutti: Viva gli sposi! bravo conte Gatti! quanto siete di spirito! quanto sapete far bene! E il matrimonio rimase concluso così ». Ma ripensando a codesta scena da commedia, Monaldo sempre più si convinceva « che il fazzoletto si era cavato fuori con troppa precipitazione », e che « di venti anni, e con la testa piena degli entusiasmi amorosi che avevo letti nei romanzi e volevo sperimentare in me stesso » dice, « quelle nozze non facevano al caso mio ». E a poco a poco « cadde nella più tetra malinconia e quasi nella disperazione». Chiese soccorso all'amico di spirito; ma questi accolse la sua ritrattazione, « come una bestemmia ». E fu invece stabilito il giorno degli sponsali!

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Quasi per istordirsi, il contino si buttò a capo fitto nelle spese. Commise mobili ricchissimi, carrozze, abiti, livree; barattò le gioie antiche di casa con altre più in moda; comprò nuovi cavalli; costruì un'altra scuderia e una rimessa, demolendo le già esistenti; chiamò a Recanati artieri da ogni parte... I danari mancavano; ma il promesso anticipo della metà della dote avrebbe poi sopperito. Sennonchè, sul più bello, il suocero gli scrive di non potergliela sborsare nel tempo stabilito . Un tal ritardo era finanziariamente un disastro, ma anche una buona ragione per farla finita; e Monaldo, per sollecitare il sospirato scioglimento, scrisse una serie di lettere anonime al non desiderato suocero, in cui gli rivelava la nessuna sua simpatia per la figliuola. Tutto fu difatto sconcluso. Ma ecco che di li a due mesi il rifiutato suocero mandò a richiedere al genero dimissionario: la restituzione dei danari prestatigli pel baratto delle gioie, «e i frutti passati e futuri di quella somma; e 400 scudi, preteso danno sofferto nel corredo per il decadi

mento della moda; e 50 scudi per il notaro che aveva scritta l'apoca privata; e 12 scudi per una cameriera tenutasi in Bologna a mio conto», scrive il disgraziato; «e 65 scudi per un abito da viaggio fattosi alla sposa a mio suggerimento; e forse qualche altra bazzecola che non ricordo ». Facendone una questione d'onore, ei pagò tutto, << sin all'ultimo quattrino »; e, beato lui!, pure innanzi a simili spropositi ammira la singolare quadratura della sua mente! « Per quella età e per le idee che in quel tempo mi bollivano in testa, mi pare che mi condussi saggiamente abbastanza » ! Tanto saggiamente, che, fatti i conti, quelle trattative fallite gli costarono << più di ventimila scudi o piastre romane »>! Vero è che rimase scàpolo!

Non posso qui ritrarre a pieno di tutte le altre follie commesse in quel torno da Monaldo; e salto col racconto alla metà del 1797, quando egli s'ammoglia davvero, e con colei che fu poi la madre di Giacomo Leopardi.

Ascoltando la messa solenne, nella chiesa di San Vito, il 15 giugno 1797, il conte non lasciò un momento solo di rimirare e ammirare la marchesina Adelaide Antici. « Feci malissimo » », confessa, perchè nella casa di Dio si deve essere occupati soltanto nel venerarlo; ma troppe cose ho fatte male nel corso della vita ». Pigliamone atto! Peggio si comportò alla processione del Corpus Domini, tre giorni dopo: chè tenne sempre gli occhi addosso a quella giovinetta, la quale a buon conto ei sapeva già promessa a un altro conte. (A fabbricar Conti i papi avevan la mano sciolta!). Il 21, avendo appreso che codesti trattati eran rotti, mandò subito un amico ad offrir la sua mano alla marchesina. Non fu accettata su' due piedi, perchè già un altro pretendente, e conte anch'esso, s'era fatto avanti. Ma Monaldo aveva su costui un notevole vantaggio: circa venti anni di meno; e finì col trionfare.

Contenti gli Antici, ne furon desolati i Leopardi. Ai quali, bisbetici e generosi, dava pur noia che per l'Adelaide ci fosse tanta ressa di domande, e per la sorella maggiore, l'Amalia, giovane carissima e amabilissima», nulla! Meno male se Monaldo avesse riparato lui a un simil torto! E poi, il marchese Antici non offriva se non una dote di seimila scudi in

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