E il nostro proprio error. Ben mille volte Fortunato colui che la caduca
Virtù del caro immaginar non perde Per volger d'anni; a cui serbare eterna La gioventù del cor diedero i fati; Che nella ferma e nella stanca etade, Così come solea nell'età verde,
In suo chiuso pensier natura abbella, Morte, deserto avviva. A te conceda Tanta ventura il ciel; ti faccia un tempo La favilla che il petto oggi ti scalda, Di poesia canuto amante. Io tutti Della prima stagione i dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettose immagini, che tanto Amai, che sempre infino all'ora estrema Mi fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito e freddo Questo petto sarà, nè degli aprichi Campi il sereno e solitario riso, Nè degli augelli mattutini il canto Di primavera, nè per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni beltate o di natura o d'arte, Fatta inanime e muta; ogni alto senso, Ogni tenero affetto, ignoto e strano; Del mio solo conforto allor mendico, Altri studi men dolci, in ch'io riponga L'ingrato avanzo della ferrea vita, Eleggerò. L'acerbo vero, i ciechi Destini investigar delle mortali E dell'eterne cose; a che prodotta, A che d'affanni e di miserie carca L'umana stirpe; a quale ultimo intento Lei spinga il fato e la natura; a cui Tanto nostro dolor diletti o giovi: Con quali ordini e leggi, a che si volva Questo arcano universo; il qual di lode Colmano i saggi, io d'ammirar son pago.
In questo specolar gli ozi traendo
Verrò che conosciuto, ancor che tristo, Ha suoi diletti il vero. E se del vero Ragionando talor, fieno alle genti
O mal grati i miei detti o non intesi, Non mi dorrò, chè già del tutto il vago Desio di gloria antico in me fia spento: Vana Diva non pur, ma di fortuna E del fato e d'amor, Diva più cieca.
Credei ch' al tutto fossero
In me, sul fior degli anni, Mancati i dolci affanni Della mia prima età:
I dolci affanni, i teneri Moti del cor profondo, Qualunque cosa al mondo Grato il sentir ci fa.
Quante querele e lacrime
Sparsi nel novo stato, Quando al mio cor gelato Prima il dolor mancò!
Mancâr gli usati palpiti, L'amor mi venne meno, E irrigidito il seno Di sospirar cessò!
Piansi spogliata, esanime
Fatta per me la vita; La terra inaridita, Chiusa in eterno gel;
Deserto il dì; la tacita Notte più sola e bruna; Spenta per me la luna, Spente le stelle in ciel.
Pur di quel pianto origine Era l'antico affetto: Nell'intimo del petto Ancor viveva il cor. Chiedea l'usate immagini La stanca fantasia; E la tristezza mia Era dolore ancor.
Fra poco in me quell'ultimo Dolore anco fu spento,
E di più far lamento Valor non mi restò.
Giacqui insensato, attonito, Non dimandai conforto : Quasi perduto e morto, Il cor s' abbandonò.
Qual fui! quanto dissimile Da quel che tanto ardore, Che si beato errore Nutrii nell'alma un di!
La rondinella vigile,
Alle finestre intorno
Cantando al novo giorno,
Il cor non mi ferì:
Non all'autunno pallido In solitaria villa, La vespertina squilla, Il fuggitivo Sol. Invan brillare il vespero
Vidi per muto calle, Invan sonò la valle Del flebile usignol.
E voi, pupille tenere, Sguardi furtivi, erranti, Voi de' gentili amanti Primo, immortale amor, Ed alla mano offertami Candida ignuda mano, Foste voi pure invano Al duro mio sopor.
D'ogni dolcezza vedovo, Tristo; ma non turbato, Ma placido il mio stato, Il volto era seren. Desiderato il termine Avrei del viver mio; Ma spento era il desio Nello spossato sen.
Qual dell'età decrepita L'avanzo ignudo e vile, Io conducea l'aprile Degli anni miei così: Così quegl'ineffabili
Giorni, o mio cor, traevi, Che si fugaci e brevi Il cielo a noi sorti.
Chi dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta? Che virtù nova è questa, Questa che sento in me? Moti soavi, immagini, Palpiti, error beato,
Per sempre a voi negato Questo mio cor non è?
Siete pur voi quell'unica Luce de' giorni miei? Gli affetti ch'io perdei Nella novella età ?
Se al ciel, s'ai verdi margini, Ovunque il guardo mira, Tutto un dolor mi spira,
Tutto un piacer mi dà.
Meco ritorna a vivere
La piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte,
Meco favella il mar. Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto obblio? E come al guardo mio Cangiato il mondo appar?
Forse la speme, o povero Mio cor, ti volse un riso? Ahi della speme il viso Io non vedrò mai più. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci inganni. Sopiro in me gli affanni L'ingenita virtù ;
Non l'annullar; non vinsela Il fato e la sventura; Non con la vista impura L'infausta verità.
Dalle mie vaghe immagini
So ben ch'ella discorda: So che natura è sorda, Che miserar non sa.
Che non del ben sollecita Fu, ma dell' esser solo: Purchè ci serbi al duolo, Or d'altro a lei non cal. So che pietà fra gli uomini Il misero non trova; Che lui, fuggendo, a prova Schernisce ogni mortal.
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