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LE DUE PRIME CANZONI

I.

Composizione e stampa delle due canzoni.

Le tracce mano

Uno spunto dall' « Ortis »

».

Le due stesure

scritte.
della lettera dedicatoria al Monti. · La risposta del Monti.
Lo scontento di Giacomo.

Le canzoni All'Italia e Sopra il monumento di Dante furon composte nel 1818; anzi della prima di esse il poeta medesimo precisò: « composta il settembre del 1818», e della seconda: opera di dieci o dodici giorni, settembre-ottobre 1818 ». Il 28 giugno di quell'anno, ancor l'animo e la fantasia vibranti di quelle prime impressioni amorose che cantò nel Primo Amore e nelle altre Elegie, egli buttava giù questa traccia, che ha una mossa affatto trovatoresca:

Oggi finisco il ventesim' anno. Misero me, che ho fatto? Ancora nessun fatto grande. Torpido giaccio tra le mura paterne. Ho amato te sola. O mio core ecc., non ho sentito passione, non mi sono agitato ecc., fuorchè per la morte che mi minacciava ecc. Oh che fai? Pur sei grande ecc. ecc. ecc. Sento gli urti tuoi ecc. Non so che vogli, che mi spingi a cantare, a fare, nè so che ecc. Che aspetti? Passerà la gioventù e il bollore ecc. Misero ecc. E come piacerò a te senza grandi fatti ecc. ecc. ecc. O patria, o patria mia, ecc., che farò? non posso spargere il sangue per te che non esisti più, ecc. ecc. ecc. Che farò di grande? Come piacerò a te? In che opera, per chi, per qual patria, spanderò i sudori, i dolori, il sangue mio? 1

1 Negli Scritti vari inediti di G. L., pag. 48.

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Esse nacquero a un parto, gemelle. Tra i manoscritti napoletani v'è di mano del poeta l'« argomento di una canzone sullo stato presente d'Italia »; e subito in principio si leggono queste parole: « O patria mia, vedo i monumenti, gli archi ecc., ma non vedo la tua gloria antica ecc. Se avessi due fonti di lagrime non potrei piangere abbastanza per te. Passaggio agl' Italiani che hanno combattuto per Napoleone: alla Russia». Indi il poeta continua delineando rapidamente pensieri, immagini, espressioni che informarono poi l'episodio, per così dire, italo-russo nella seconda canzone; poi riprende a mezzo: O patria mia, vedo le mura e gli archi, seguitando sin che verso la fine s'impone: «qui si passi alla battaglia de' Greci alle Termopile».

Nelle carte napoletane si son rinvenuti altresì questi brani della traccia in prosa, che più propriamente si riferiscono alla seconda canzone:

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Anch'io vengo come posso a cantare e tributare omaggio con voi e con tutti gl'Italiani a Dante. O gran padre Alighieri, questo già non ti tocca per amor di te, che non hai bisogno di monumento e sei glorioso per tutto e immortale ; e se l'Italia t'avesse dimenticato sarebbe già barbara ecc., nè certo ti dimenticò: le avvengano tutte le sventure, se lo fece; ma per gl'Italiani, acciò si destino ecc. Oh come, vedi, la povera Italia, come fu straziata dai Francesi, spogliata de' marmi e delle tele! ecc. trattati come pecore vili da' Galli, Itali noi! Qual tempio, qual altare non violarono qual monte (pendice), qual rupe, qual antro sì riposto fu sicuro dalla loro tirannide? Libertà bugiardissima ecc. E 'l peggio è che fummo costretti di combattere per loro. Qui alle campagne e selve rutene ecc. come sopra per l'altra

canzone...

.. Morendo i poveretti ecc. (dopo una descrizione lirica del modo come morivano) si volgevano a te, o patria ecc.: O Italia, o Italia bella; o patria nostra, oh in che diversa terra moriamo per colui che ti fa guerra! Oh morissimo per mano di forti e non del freddo: oh morissimo per te, non per li tuoi tiranni: oh fosse nota la morte nostra! infelici, sconosciuti per sempre, e inutilmente soffrenti le più acerbe pene! Così dicendo morivano e gli addentavano le bestie feroci, urlando su per la neve e il ghiaccio ecc. Anime care, datevi pace e vi sia conforto che non hacci per voi conforto alcuno. Infelicissimi fra tutti, riposatevi nell'infinità della vostra miseria, vi sia conforto il pianto della patria e de' parenti: non di voi si lagna la patria, ma di chi vi spinse a pugnar contra lei, E mesce al pianto vostro il pianto suo; sventuratissima sempre. Vi sia conforto che la sorte vostra non è stata più dolce di quella della patria. Dei guai sofferti dall' Italia sotto il dominio de' Francesi tanto monarchico quanto repubblicano, del suo spoglio ecc.

Nello Zibaldone (v. I, p. 168) occorre questa curiosa e preziosa annotazione: << Per un' ode lamentevole sull' Italia può servire quel pensiero di Foscolo nell' Ortis, lett. 19 e 20 febbraio 1799, pag. 200, ediz. di Napoli 1821 ». O qui è incorso un errore di stampa, o questa dell'edizione è una giunta posteriore; giacchè la postilla si trova collocata tra quelle che appartengono agli ultimi giorni del 1818 o ai primi del '19. Comunque, nella lettera indicata del Jacopo Ortis si trova qualche concetto e qualche mossa, ch'è poi nella canzone All'Italia. Il Foscolo aveva scritto:

I tuoi confini, o Italia, son questi! ma sono tutto di sormontati d'ogni parte dalla pertinace avarizia delle nazioni. Ove sono dunque i tuoi figli? Nulla ti manca se non la forza della concordia. Allora io spenderei gloriosamente la mia vita infelice per te: ma che può fare il solo mio braccio e la nuda mia voce? Ov'è l'antico terrore della tua gloria? Miseri! noi andiamo ogni dì memorando la libertà e la gloria degli avi, le quali quanto più splendono tanto più scoprono la nostra abbietta schiavitù. Mentre invochiamo quelle ombre magnanime, i nostri nemici calpestano i loro sepolcri. E verrà forse giorno che noi perdendo e le sostanze e l'intelletto e la voce, sarem fatti simili agli schiavi domestici degli antichi, o trafficati come i miseri Negri; e vedremo i nostri padroni schiuder le tombe, e disseppellire e disperdere al vento le ceneri di que' Grandi per annientarne le ignude memorie; poichè oggi i nostri fasti ci sono cagione di superbia, ma non eccitamento dall'antico letargo. Così grido quand'io mi sento insuperbire nel petto il nome Italiano, e rivolgendomi intorno io cerco, nè trovo più la mia patria.

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Le due canzoni furono insieme pubblicate a Roma «< il primo dell'anno seguente», con la data però del 1818, presso Francesco Bourlié. Giacomo ne aveva mandato, il 19 ottobre, il manoscritto al Giordani, a Piacenza, dicendogli :

Con questa riceverete un mio libricciuolo manoscritto. Vorrei che lo faceste stampare costì o dove meglio crederete, ma in-12 o altro sesto piccolo, perchè la spesa, dovendosi fare dal mio privato erario, bisogna che sia molto sottile, a volernela spremere: e vedrete che o grande o piccolo che sia il sesto, il numero delle pagine non può essere altro che uno. Vedrete similmente che io dedico il libricciuolo al Monti. Vorrei che gli scriveste perchè me ne desse licenza. Io gli scriverò nel mandargli copia del libercoletto, stampato che sarà.

Ma lettera e manoscritto andarono perdute; onde Giacomo, informandone il Giordani, soggiungeva, il 27 novembre:

Sic te servavit Apollo, ma solamente quanto al farle stampare, giacchè vi prego di nuovo che scriviate al Monti, avendo fatto ricopiare il libricciuolo e mandatolo a Roma, dove non lo farò pubblicare, se prima non saprò che m'abbiate impetrata la licenza che ho detto.

A Roma ci fu qualche intoppo per via della censura. «Mi scrivono da Roma», egli stesso riferisce, << che il manoscritto quantunque piccolissimo, tuttavia si potrebbe dare il caso che non potesse passare per il buco della censura ». Passò difatto a stento. Riscrive al Giordani il 12 febbraio 1819: so che a Roma s'è dovuto stentare assai per carpirgli un imprimatur.

La lettera dedicatoria al Monti suonava così in quella prima edizione:

Al chiarissimo sig. cavaliere VINCENZO MONTI

GIACOMO LEOPARDI.

Quando mi risolsi di pubblicare queste Canzoni, come non mi sare lasciato condurre da nessuna cosa al mondo a intitolarle a verun potente, così mi parve dolce e beato il consacrarle a Voi, signor cavaliere. Stante che oggidì chiunque deplora o esorta la patria nostra, non può fare che non si ricordi con infinita consolazione di Voi che insieme con quegli altri pochissimi, i quali tacendo non vengo a dinotare niente meno di quello che farei nominando, sostenete l'ultima gloria nostra, io dico quella che deriva dagli studj, e singolarmente dalle lettere e arti belle, tanto che per anche non si può dire che l'Italia sia morta. Di queste canzoni, se uguaglino il soggetto, che quando lo uguagliassero, non mancherebbe loro nè grandiosità nè veemenza, sarà giudizio non tanto dell'universale quanto vostro; giacchè da quando veniste in quella fama che dovevate, si può dire che nessuno scrittore italiano, se non altro, di quanti non ebbero la vista impedita nè da scarsezza d'intelletto, nè da presunzione e amore di sè medesimi, stimò che valessero punto a rifarlo delle riprensioni vostre le lodi dell'altra gente, o lodato da voi riputò mal pagate le sue fatiche o si curò de' biasimi o dello spregio del popolo. Basterà che intorno al canto di Simonide che sta nella prima Canzone io significhi non per Voi, ma per li più de' lettori, e domandandovi perdono di questo, ch'io mi fo coraggio e non mi vergogno di scriverlo a Voi, che quel gran fatto delle Termopile fu celebrato realmente da un Poeta greco di molta fama, e quel ch'è più, vissuto in quei medesimi tempi, cioè Simonide, come si vede appresso Diodoro nell'undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso Poeta; lasciando l'epitaffio riportato da Cicerone e da altri. Due o tre delle quali parole recate da Diodoro sono espresse nel quinto verso dell'ultima strofe. Ora io giudicava che

a nessun altro Poeta lirico nè prima nè dopo toccasse mai verun soggetto così grande nè conveniente. Imperocchè quello che raccontato o letto dopo ventitre secoli, tuttavia spreme da occhi stranieri le lagrime a viva forza, pare che quasi veduto, e certamente udito a magnificare da chicchessia nello stesso fervore della Grecia vincitrice di un'armata quale non si vide in Europa se non allora, fra le maraviglie i tripudj gli applausi le lagrime di tutta una eccellentissima nazione sublimata, oltre a quanto si può dire o pensare dalla coscienza della gloria acquistata, e da quell'amore incredibile della patria ch'è passato in compagnia de' secoli antichi, dovesse ispirare in qualsivoglia Greco, massimamente Poeta, affetto e furore onninamente indicibile e sovrumano. Per la qual cosa dolendomi assai che il sovraddetto componimento fosse perduto, alla fine presi cuore di mettermi, come si dice, nei panni di Simonide, e così, quanto portava la mediocrità mia, rifare il suo canto, del quale non dubito di affermare, che se non fu maraviglioso, allora e la fama di Simonide fu vano rumore, e gli scritti consumati degnamente dal tempo. Di questo mio fatto, se sia stato coraggio o temerità, sentenzierete Voi, signor cavaliere, e altresì, quando vi paia da tanto, giudicherete della seconda Canzone, la quale io v'offro umilmente e semplicemente insieme coll'altra, acceso d'amore verso la povera Italia, e quindi animato di vivissimo affetto e gratitudine e riverenza verso cotesto numero presso che impercettibile d'Italiani che sopravvive. Nè temo se non ch'altri mi vituperi e schernisca della indegnità e miseria del donativo; che quanto a Voi non ignoro che siccome l'eccellenza del vostro ingegno vi dimostrerà necessariamente a prima vista la qualità dell'offerta, così la dolcezza del cuor vostro vi sforzerà d'accettarla, per molto ch'ella sia povera e vile, e conoscendo la vanità del dono, a ogni modo procurerete di scusare la confidenza del donatore, forse anche vi sarà grato quello che non ostante la benignità vostra, vi converrà tenere per dispregevole.

Nella ristampa che il poeta medesimo fece di queste sue canzoni a Bologna nel 1824, corresse e accorciò codesta dedicatoria; che vi si legge:

Consacro a Voi, signor cavaliere, queste Canzoni, perchè quelli che oggi compiangono o esortano la patria nostra, non possono fare di non consolarsi pensando che Voi con quegli altri pochissimi (i nomi dei quali si dichiarano per sè medesimi quando anche si tacciano) sostenete l'ultima gloria degl'Italiani; dico quella che deriva loro dagli studi e singolarmente dalle lettere e dalle arti belle; tanto che per anche non si potrà dire che l'Italia sia morta. Se queste Canzoni uguagliassero il soggetto, so bene che non mancherebbe loro nè grandiosità nè veemenza; ma non dubitando che non cedano alla materia, mi rimetto del quanto e del come al giudizio vostro, non altrimenti ch'io faccia a quello dell'universale; conformandomi in questa parte a molti valorosi ingegni italiani che per l'ordinario non si contentano se le opere loro sono approvate per buone dalla moltitudine, quando G. LEOPARDI, I Canti. 18

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