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che del buon cittadino aveva detto il Metastasio nell'Attilio

Regolo (II, 1):

Quando i sudori e il sangue

Sparge per lei, nulla del proprio ei dona;

Rende sol ciò che n'ebbe.

O tessaliche strette.... (v. 65). A codesto fatto glorioso tornava spesso la mente del poeta filosofo. Nei primi giorni del 1819, annotava nello Zibaldone (I, 146):

La costanza dei trecento alle Termopile, e in particolare di quei due che Leonida voleva salvare e non consentirono ma vollero evidentemente morire, come anche la solita gioia delle madri o padri spartani (ma è più notabile delle madri) in sentire i loro figliuoli morti per la patria, è similissima anzi egualissima a quella dei martiri e in particolare di quelli che, potendo fuggire il martirio, non vollero assolutamente, desiderandolo come gli Spartani desideravan di cuore di morire per la patria. E un esempio recente di un martire, che potendo fuggir la morte, non volle, si può vedere nel Bartoli, Missione al gran Mogol....

E ohimè, anche a proposito di esso trovò da esercitare il suo pessimismo! Solo qualche mese più tardi, ei soggiungeva (I, 179-80):

Moltissime volte, anzi la più parte, si prende l'amor della gloria per l'amor della patria. Per esempio, si attribuisce a questo la costanza dei Greci alle Termopile, il fatto d'Attilio Regolo (se è vero) ecc. ecc.; le quali cose furono puri effetti dell'amor della gloria, cioè dell'amor proprio immediato ed evidente, non trasformato ecc. Il gran mobile degli antichi popoli era la gloria che si prometteva a chi si sacrificava per la patria, e la vergogna a chi ricusava questo sacrifizio; e però, come i Maomettani si espongono alla morte, anzi la cercano, per la speranza del paradiso che gliene viene secondo la loro opinione, così gli antichi per la speranza, anzi certezza della gloria, cercavano la morte, i patimenti ecc.; ed è evidente che così facendo erano spinti da amor di sè stessi e non della patria, dal vedere che alle volte cercavano di morire anche senza necessità nè utile, come puoi vedere nei dettagli che dà il Barthélemy sulle Termopile, e da quegli Spartani accusati dall'opinione pubblica d'aver fuggito la morte alle Termopile, che si uccisero da sè, non per la patria, ma per la vergogna. Ed esaminando bene si vedrà che l'amor puramente della patria anche presso gli antichi era un mobile molto più raro che non si crede....

Sulla fine di giugno del 1828 poi, annotava (VII, 256):

Tanto è vero che tra gli antichi la prima lode era quella della felicità, che noi vediamo nelle Orazioni funebri, e in simili casi, gli Oratori dovendo lodare, per esempio, de' soldati morti per la patria, cominciar dal mostrare che essi non sono stati infelici, che la loro morte non è stata una sventura. Oggi al contrario si cercherebbe d'intenerir gli uditori sopra il loro caso: il muover la compassione in tali circostanze era cosa al tutto ignota, era un vero controsenso presso gli antichi. Le loro Orazioni funebri sono tutte consolatorie.

Il frammento di Simonide, riferito da Diodoro Siculo (1. XI, c. 11; e cfr. BERGK, n. 4), suona così nella versione del Giordani:

De' morti alle Termopile gloriosa è la fortuna, bello il fine, altare la tomba, lode la sventura. La funeral vesta di que' valorosi non sarà consumata nè discolorata dal tempo che vince ogni cosa. La loro sepoltura contiene la gloria degli abitanti di Grecia. N'è testimonio Leonida re di Sparta, che lasciò gran bellezza di virtù e fama pe

renne.

E la seconda parte d'un altro frammento (il 96° nella raccolta del Bergk) dello stesso poeta dice:

. Nè moriste morendo, da poi che la virtù voi glorificando ritrasse dall'ostello di Hades.

L'epitaffio simonideo poi, che già Erodoto (VII, 228) ebbe cura di trascrivere, suona così nella versione di Cicerone 1:

Dic, hospes, Spartae nos te hic vidisse iacentes,
Dum sanctis patriae legibus obsequimur.

L'ultimo voto del poeta, Così la vereconda... (v. 137), riecheggia la chiusa della prima delle Olimpiche di Pindaro: << Cosi possa tu, o poeta, trapassare sublime di gloria, e ti sia dato di viver sempre nella memoria de' Greci quanto la fama de' vincitori » .

1 Tusculan. Disputat., 1. I, c. 42. Per il testo greco, v. BERGK, n. 92.

IV.

Alcune chiose alla canzone « Sopra il monumento di Dante » . - Il Leopardi a Ravenna. La giovanile orazione « Agl’Italiani ». Giacomo misogallo.

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La seconda Canzone, osserva il De Sanctis, 1 è quasi lo sviluppo e il compimento della prima. La rappresentazione d'Italia, rimasta li come strozzata all'apparire del mondo greco, qui si ripiglia e si continua, tolta occasione dal monumento che in Firenze si preparava a Dante. La ritirata di Mosca, li appena accennata, qui diviene la parte principale anzi il corpo della poesia, che non è altro in fondo, se non lo spettacolo che offriva di sè l'Italia sotto la dominazione francese ».

Del monumento a Dante il manifesto era uscito il 18 luglio 1818 2. I versi D'aria e d'ingegno... (v. 18) dicon bellamente quel che già proclamava la prosa del manifesto:

È presso a compiersi il quinto secolo da che fu Dante; e lo straniero, che a noi si reca, tutto compreso da venerazione pe' rari uomini che in ogni tempo hanno illustrato la Toscana, cerca ansioso il monumento di questo, che sopra tutti gli altri vola com'aquila; e non trovatolo, ne fa altissime maraviglie, e ci rampogna.

Perchè le nostre genti Pace... (v. 1 ss.). V'è evidente allusione a tutti coloro che, in versi e in prosa, sospiravano e auguravano la pace; e più specialmente al Monti. Il quale, negli ultimi suoi anni, durante quella gran miseria di tempi, egli, il poeta dei sublimi scotimenti francesi e delle battaglie che mutavano faccia al mondo, inneggiava alla pace, con cuore oh quanto diverso dall'antico!... Per quanto sospirata

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1 Nuovi saggi critici, pag. 125.

2 L'esecuzione dell'opera d'arte fu affidata allo scultore Stefano Ricci; ed essa fu poi collocata in Santa Croce, ed inauguratavi il 24 marzo 1830.

e dolce, quella pace non bastava alla salute della patria; occorreva invece che questa si rivolgesse ai medesimi esempi degli avi, onde un tempo l'era venuta tanta grandezza. Così, contradicendo all'opinione di quanti aderivano ai nuovi governi della restaurazione, il nostro poeta ripigliava le antiche e più nobili ispirazioni del Monti stesso. Ne ripigliava quegli ardori guerreschi e quei concetti essenzialmente ghibellini, onde il vecchio poeta, in tempi migliori, aveva inneggiato alle antiche memorie e alle nuove speranze ». 1

Il meonio cantor (v. 22) è un'espressione ovidiana 2, che già aveva fatta sua il Monti, nei bellissimi sciolti Alla marchesa Anna Malaspina (v. 121-2: « nè Maron lo vinse Ně il meonio cantor »). E qui è pure quell' accenno a Dante, che non rimase senza effetti nè sulla poesia del Leopardi, nè su quelle del Foscolo e del Manzoni.

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Del gran padre Alighier ti risovvenga;
Quando, ramingo dalla patria e caldo
D'ira e di bile ghibellina il petto,

Per l'itale vagò guaste contrade
Fuggendo il vincitor guelfo crudele,

Simile ad uom che va di porta in porta

Accattando la vita. Il fato avverso

Stette contra il gran vate, e contra il fato
Morello Malaspina.

Il cener freddo e l'ossa nude Giaccian... sott'altro suolo (v. 24). Il Leopardi fu a Ravenna nei primi giorni dell' agosto 1826 ; ma nelle lettere che scrisse di là, chi lo immaginerebbe?, non fa neanche un fugace accenno al sepolcro di Dante. In una al padre, tocca delle « antichità di Ravenna » (delle quali pur tocca in una allo Stella), della tranquillità di

1 ZUMBINI, Studi sul Leopardi, v. I, p. 78 e 81.

2 Amor. III, IX, 25: « Adiice Maeoniden, a quo, ceu fonte perenni, Vatum Pieriis ora rigantur aquis ». E cfr. Art. am. II, 4: « Maeonioque seni »; Ex Pont. IV, XII, 27: « Maeonis... chartis »; e III, III, 31: « Maeonio... carmine »; Remed. Am., 373: « Maeonio... pede »; Metam. V, 268: * Maeonidas » (?), le Muse. Anche Marziale, V, 10: « Maeoniden »; e Silio Italico, IV, 527: « Non, mihi Maeoniae redeat si gloria linguae ». 3 Vedi qui dietro, nella Vita del poeta, pag. 100.

quei cittadini, del cardinal Rivarola e del « canonico ferito in sua vece », dei «partiti» e delle « doti» che si trovavano in quei paesi, buoni per ammogliar Carlo; in una alla Paolina, narra qualmente in Romagna sia « andato come in trionfo, chè donne e uomini facevano a gara per vederlo »; e in un'altra a un amico, dichiara che la Romagna gli è già piaciuta infinitamente. Vi andò costrettovi dalle vivissime istanze d'un signore ravennate; e fors' anche per il desiderio di esaminarvi, per conto del Niebuhr, il codice d'Aristofane.

Taccio gli altri nemici.... (v. 99). Nella prima edizione, questi versi suonavano 1:

Taccio gli altri nemici e l'altre doglie,

Ma non la Francia scellerata e nera....

Il secondo sapeva di Basvilliana per la forma, di Misogallo pel concetto; e il figlio di Monaldo v'avea trasfuso un po' dell'odio paterno contro la terra della Rivoluzione! 2 Del resto,

1 C. ANTONA-TRAVERSI, Canti e versioni di G. L., Città di Castello, 1887, p. 246.

2 V. più sù, p. 14. Monaldo aveva, oltre alle politiche, anche qualche ragione privata per odiare i Francesi. Nel 1799, fu, a furor di popolo, eletto governatore di Recanati: s'intende ch'egli teneva per la conservazione dello stato quo. All'alba del secondo giorno del suo governo, ecco che il fratello lo va a svegliare: Alzatevi, ecco i Francesi!» (Autobiografia, p. 112 ss.). La testa ancor piena dei fumi del potere, Monaldo si levò con impeto eroico; ma il fratello gli consigliò di fuggire, come avevano già fatto tutti i suoi elettori. Con la moglie e il resto della famiglia ei corse a nascondersi in un ròccolo, nel poderetto presso alla casa, mentre una palla di cannone fischiava loro sul capo e un'altra strisciava sulla casuccia del contadino. Furono, per il momento, liberati dal valore e dal sangue freddo d'una ventina di contadini, che appiattati dietro una siepe, fecero fuoco sui Francesi; i quali scapparono credendo che fosse in armi tutto il paese. Ne seguì la più sbrigliata anarchia. Monaldo, versando venti scudi, si scaricò dell'ufficio di governatore. Ma il 25 tornarono i Francesi; e il loro comandante, «giunto appena nel palazzo del Comune, scrisse un decreto di morte contro Monaldo, ordinando che gli si smantellasse e incendiasse altresì la casa. Un Commissario, cui aveva reso qualche servigio, lo avvertì del pericolo, raccomandandogli di tenersi molto ben nascosto nel suo nascondiglio, in quelle prime ore di furia. Il guaio più grosso era che la signora Adelaide si trovava incinta del secondo fi

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