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I.

La lettera autobiografica.

All'amico bolognese conte Carlo Pèpoli, quel medesimo cui indirizzò gli Sciolti Questo affannoso e travagliato sonno, Giacomo Leopardi scriveva nel 1826, mentre si trovava anch'egli a Bologna:

Ti mando le notizie poco notabili della mia vita....

Nato dal conte Monaldo Leopardi di Recanati, città della Marca di Ancona, e dalla marchesa Adelaide Antici della stessa città, ai 29 giugno del 1798, in Recanati.

Vissuto sempre nella patria fino all'età di 24 anni.

Precettori non ebbe se non per li primi rudimenti che apprese da pedagoghi, mantenuti espressamente in casa da suo padre. Bensì ebbe l'uso di una ricca biblioteca raccolta dal padre, uomo molto amante delle lettere.

In questa biblioteca passò la maggior parte della sua vita, finchè e quanto gli fu permesso dalla salute, distrutta da' suoi studi; i quali incominciò indipendentemente dai precettori in età di 10 anni, e continuò poi sempre senza riposo, facendone la sua unica occupazione.

Appresa, senza maestro, la lingua greca, si diede seriamente agli studi filologici, e vi perseverò per sette anni; finchè, rovinatasi la vista, e obbligato a passare un anno intero (1819) senza leggere, si volse a pensare, e si affezionò naturalmente alla filosofia; alla quale, ed alla bella letteratura che le è congiunta, ha poi quasi esclusivamente atteso fino al presente.

Di 24 anni passò in Roma, dove rifiutò la prelatura e le speranze di un rapido avanzamento offertogli dal cardinal Consalvi, per le vive istanze fatte in suo favore dal consiglier Niebuhr, allora Inviato straordinario della Corte di Prussia in Roma.

Tornato in patria, di là passò a Bologna, ecc.

Pubblicò, nel corso del 1816 e 1817, varie traduzioni ed articoli originali nello Spettatore, giornale di Milano, ed alcuni articoli filologici nelle Effemeridi Romane del 1822:

1.o Guerra dei topi e delle rane, traduzione dal greco; Milano 1816: ristampata quattro volte in diverse collezioni.

2.o Inno a Nettuno (supposto), tradotto dal greco, novamente scoperto, con note e con appendice di due odi anacreontiche in greco (supposte) novamente scoperte; Milano, 1817.

3.o Libro secondo dell'Eneide, tradotto; Milano, 1817.

4.o Annotazioni sopra la Cronica di Eusebio, pubblicata l'anno 1818 in Milano dai dott. Angelo Mai e Giovanni Zohrab; Roma, 1823. 5. Canzoni sopra l'Italia, sopra il monumento di Dante che si prepara in Firenze; Roma, 1818. Canzone ad Angelo Mai, quand'ebbe scoperto i libri di Cicerone della repubblica; Bologna, 1820. Canzoni (cioè Odes et non pas Chansons); Bologna, 1824.

6.o Martirio de' SS. Padri del Monte Sinai, e dell'Eremo di Raitù, composto da Ammonio Monaco, volgarizzamento (in lingua italiana del XIV secolo, supposto) fatto nel buon secolo della lingua italiana; Milano, 1826.

7. Saggio di operette morali; nell' Antologia di Firenze, nel nuovo Raccoglitore, giornale di Milano; e a parte, Milano, 1826. 8.0 Versi (poesie varie); Bologna, 1826.

II..

Il padre tiranno. Il tentativo di fuga dalla casa paterna.

Dei grandi poeti avviene come dei grandi conquistatori, e in generale come di tutti quegli eroi del pensiero o dell'azione che diventan cari al popolo. La fantasia popolare va intorno alla loro memoria con carezzosa e materna parzialità, li vagheggia, come Dante direbbe, «or da coppa or da ciglio», sacrificando ad essi ogni altro sentimento, compreso quello della giustizia e della verosimiglianza. Pur di renderne più eccelso il monumento, essa accumula nelle fondamenta di questo i cadaveri di quanti hanno avuto la sventura di aver con l'eroe relazioni perfin soltanto cronologiche. Ed è veramente curiosa la drammatica lotta che ogni giorno si combatte tra la leggenda, che cerca di penetrar di sorpresa negli accampamenti della storia, e la critica che vigila per ricacciarla indietro. Si ripensi al Tasso. Per codesto prediletto infelice, indulgenza sconfinata ed ammirazione costante, pur quando le sue posteriori confessioni

vengono a toglier fede alle accuse da lui pronunziate in momenti di delirio; pel duca Alfonso, pei suoi amici o rivali, pei suoi critici o corrispondenti, insaziabili pretese di longanimità, di liberalità, di tolleranza meglio che evangelica. Per lui, l'aureola della persecuzione e del martirio; per gli altri, la gogna, come a persecutori o carnefici.

Qualcosa di simile è avvenuto col Leopardi. Della sua straziante infelicità la fantasia popolare (non dico plebea) ha voluto un responsabile, su cui poter saziare una generosa vendetta. Chi non ricorda il perfido ma umano e politico consiglio di Caifas ai Farisei?

Consigliò i Farisei, che convenia

Porre un uom per lo popolo a' martìri.

E l'uomo, cui questa volta è toccata la parte di vittima, è stato proprio colui che pure aveva fatto al mondo il prezioso dono del grande poeta!

In verità, chi indicò Monaldo alla esecrazione pubblica fu Giacomo medesimo. Scrivendo da Recanati al conte Giulio Perticari, ch'era a Pesaro, il 9 aprile 1821, una di quelle sue lettere disperate, egli diceva:

Al vostro caro e pietoso invito rispondo ch'eccetto il caso di una provvisione, io non vedrò mai cielo nè terra che non sia recanatese, prima di quell'accidente che la natura comanda ch'io tema, e che oltracciò, secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza: dico la morte di mio padre. Il quale non ha altro a cuore di tutto ciò che m'appartiene, fuorchè lasciarmi vivere in quella stanza dov'io traggo tutta quanta la giornata, il mese, l'anno, contando i tocchi dell'oriuolo.

Par qui di sentire già il mormorio di quei versi, così mirabilmente belli, ma anch'essi così cupamente tristi, delle Ricordanze:

Viene il vento recando il suon dell'ora

Dalla torre del borgo. Era conforto

Questo suon, mi rimembra, alle mie notti,
Quando fanciullo, nella buia stanza,
Per assidui terrori io vigilava,
Sospirando il mattin.

E non aveva madre, padre, codesto povero bambino, lasciato così solo ed al buio, in preda ai terrori della sua im

maginazione? E la casa avita era resa una prigione a chi << per cieco malor, condotto dalla vita in forse », si vedeva costretto a piangere << la bella giovanezza » e il cadente fiore dei suoi poveri dì, e a poetare « dolorosamente alla fioca lucerna, all'ore tarde, assiso sul conscio letto » ?

Il carceriere, i lettori lo imparano fremendo, era Monaldo; carceriere severo e, per di più, taccagno. Al suo amabile Pietro Giordani, ch'era allora a Piacenza, Giacomo scriveva dal suo inospite borgo, il 5 dicembre 1817:

Sappiate che io non ho un baiocco da spendere; ma mio padre mi provvede di tutto quello che io gli domando, e brama e vuole che gli domandi quello che desidero. E io tra il non avere e il domandare scelgo il non avere, eccetto se la necessità de' miei studi o la voglia troppo ardente di leggere qualche libro non mi fa forza. E dico la voglia di qualche libro, perchè niente altro che libri gli ho domandato mai, fuor solamente un paio e mezzo di cavalli di posta, ch'egli non mi dà, perchè s'è persuaso d'una cosa che non mi sono persuaso io, cioè che io abbia a fare il galantuomo in casa sua.

In casa sua! E a vent'anni, Giacomo, insofferente della prigionia, tentò fuggirne. Chiese, o lasciò chiedere, al Perticari se a Roma avrebbe potuto trovare da guadagnar tanto da non morirvi di fame. Gli fu risposto che « tutto il buono a Roma era per li preti »; se mai, gli si poteva dare qualche consiglio per spendervi meno. Ed egli ripicchiava impazientito, scrivendone al Giordani (26 marzo 1819):

Ma quando eziandio costasse il meno che si possa immaginare, questo non è il caso mio, cercare il dove, ma il come. Mio padre è stradeliberato di non darmi un mezzo baiocco fuori di casa, vale a dire in nessun luogo, stantechè neppur qui mi dà mai danaro, ma solamente mi fornisce del necessario come il resto della famiglia. Mi permette sibbene ch'io cerchi maniera d'uscir di qua senza una sua minima spesa; e dico mi permette, giacch'egli non muove un dito per aiutarmi; piuttosto si moverebbe tutto quanto per impedirmi.... Il fatto sta che qualunque luogo mi dia tanto da vivere mediocrissimamente sarà convenientissimo per me, nè io penso di poter uscire di questa caverna senza spogliarmi di molte comodità che non mi vagliono a niente senza l'aria e la luce aperta.

I malanni che col sopravvenire dell'estate del '19 divennero più gravi, affrettarono l'audace risoluzione. Riscriveva al Giordani, ora in Milano, il 26 luglio:

Nell'età che le complessioni ordinariamente si rassodano, io vo scemando ogni giorno di vigore, e le facoltà corporali mi abbandonano a una a una. Questo mi consola perchè mi ha fatto disperare di me stesso, e conoscere che la mia vita non valendo più nulla posso gittarla, come farò in breve, perchè non potendo vivere se non in questa condizione e con questa salute, non voglio vivere, e potendo vivere altrimenti bisogna tentare. E il tentare così come io posso, cioè disperatamente e alla cieca, non mi costa più niente, ora che le antiche illusioni sul mio valore, e sulle speranze della vita futura e sul bene ch'io potea fare, e le imprese da togliere e la gloria da conseguire mi sono sparite dagli occhi, e non mi stimo più nulla, e mi conosco da meno di tanti miei cittadini, ch'io disprezzava così profondamente.

Domanda, di nascosto, un passaporto al recanatese conte Saverio Broglio, residente a Macerata, pel regno lombardoveneto, mentendo, nella lettera, i saluti particolari di suo padre: <«< il quale », soggiunge, «vi sarà tenuto ancor egli del favore ch'io vi domando »! Ma la gherminella fu facilmente sventata, e il passaporto, invece che nelle sue, capitò nelle mani di Monaldo. Che (par di vederlo!) con viso ed atteggiamento gravi e dignitosi, presentò al figliuolo ribelle la lettera e il documento sequestrati, collocando questo, come ha lasciato scritto egli medesimo, « in un canterano aperto », e dicendo a Giacomo « che poteva prenderlo a comodo suo».

<< Cosi tutto finì, conchiude il Conte padre; ma, com'al solito, ei fece troppo assegnamento sulle sue abilità di uomo di mondo. Giacomo, scontento degli altri e di sè stesso, riscrisse al Broglio (13 agosto), scusandosi pel tranello tesogli e denunziando fieramente il presunto suo persecutore. E' confessa:

La risoluzione ch'io aveva presa, non era nè immatura nè nuova. Io l'aveva fissata già da un mese, e l' avea concepita fin da quando conobbi la mia condizione e i principii immutabili di mio padre, cioè da parecchi anni. Io non sono nè pentito nè cangiato. Ho desistito dal mio progetto per ora, non forzato nè persuaso, ma commosso e ingannato. Persuaso non poteva essere, come nè anche persuadere, perchè le nostre massime sono opposte, e perciò fuggo ogni discorso su questa materia, giacchè il discorso non può esser concorde quando i fondamenti sono discordi. Se mi opporranno la forza, io vincerò, perchè chi è risoluto di ritrovare o la morte o una vita migliore, ha la vittoria nelle sue mani. Le mie risoluzioni non sono passeggere come quelle degli altri, e come mio padre stimo che si persuada, per dormire i suoi sonni in pace, come suol dire. Io non voglio vivere in Recanati. Se mio

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