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ministrazione giudiziaria, Monaldo comprese d'aver segnata la propria sentenza di morte. In virtù di quell'atto la moglie divenne l'uomo di casa, ed egli n'indossò le gonne. «Si dette il caso » narrò la Paolina in una lettera del 1831, « quando io ero piccina piccina, e anche forse quando non ero nemmeno nata, che la gonna di mia madre s'intrecciò fra le gambe di mio padre, non so come: ebbene, non è stato mai più possibile ch'egli abbia potuto distrigarsene ».1 Monaldo mordeva il freno, anzi ogni tanto dava una strappata; ma la domatrice allora accorciava di più le redini. Una volta che, nel giugno 1827, c'era non so quale grandioso spettacolo al teatro d'Ancona, e «tutt'i Recanatesi › v'andavano, ei dovė starsene a casa; onde la Paolina riferiva a Giacomo: « E anche a babbo, se non fosse stato tanto impicciato nella sua gonnella, era venuto voglia d'andarci; ma niente!». Spietati i figli con lui; ma gli è che della sua interdizione essi o non seppero mai nulla, o solo molto tardi. E quando lo accusavano dell'avarizia non sua, ei preferiva tacere, o biascicare parole oscure, alla confessione, che gli ripugnava, d'esser pupillo della moglie. Solo da vecchio, nel 1838, pensando con raccapriccio alla morte di Giacomo, si permetteva di scrivere, con profetica amarezza, all'altro figliuolo Pierfrancesco: « Tutto si metterà al mio debito, giacchè l'interno delle case non si vede, e quello che fa la casa, si stima fatto dal capo!». E sì che alle accuse de' figli avrebbe potuto rispondere come lo Stazio dantesco a Virgilio :

Or sappi che avarizia fu partita
Troppo da me!

Povero tiranno da commedia, che si sfogava poi col cognato imprecando alle « prepotenze delle mogli italiane », e dando dell'arciforestica » al prototipo di esse ch'era toccato proprio a lui!

Con Giacomo, che, debole e infermiccio, s'ostinava a voler vivere fuori di casa, in climi freddi, egli si strugge di

1 Lettere di Paolina Leopardi a Marianna ed Anna Brighenti, pubblicate da EMILIO COSTA, Parma 1887, p. 53.

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non poter largheggiare. Nel natale 1822 riesce a mandargli a Romà qualcosa più che la scarna benedizione paterna, e gli ride quasi la penna in mano dalla gioia. « Perchè poi » gli scrive, « le rugiade celesti non vadano disgiunte da qualche stilla di pinguedine terrena, riscuoterete dalla posta scudi 10 che vi ho francati, e vi faranno ricordare il giubilo infantile, con cui si suole nella prima età vedere il ritorno di queste lietissime feste ». Nel carnevale successivo scova tra le cartacce una « pagella » di credito d'otto scudi, donde forse qualche amico romano avrebbe potuto cavare uno zecchino, e l'invia al figliuolo perchè possa « convertire il zecchino in confetti ». E quando, in fin dell'aprile, Giacomo, sulle mosse di tornare a casa, gli domanda consiglio circa le mance da lasciare, egli risponde con premuroso imbarazzo: Spero che oggi otterrò da mamma scudi 12 per infrancarveli, ma, se non fosse così, supplirete voi, e li avrete all'arrivo. Penso meglio, e vi accludo un biglietto per Visconti, che ve li pagherà a vista ». Avrebbe anche voluto invogliare il figlio ad invitare qualche valentuomo a passare un po' di giorni a Recanati: « la mamma vostra potrà talora imbruttirsene », soggiunge, « ma può darlesi questo piccolo dispiacere; e altronde chi vuole al mondo essere ben accolto, bisogna che sia buono e cordiale accoglitore ».

«

Più tardi, sulla fine del novembre '25, Monaldo sa che a Bologna suo figlio è infermo. Bramerebbe correre, e non può; gli manda intanto scudi 25, « che gradirete », scrive, « come un segno di quello che vorrei fare, e che non posso, con acerbissimo dolore del mio cuore ». E poi, una scatoletta di tabacco, un bariletto d'olio, una scatola di fichi, fin del cacio pecorino: tutte cose inutili, è vero, per Giacomo, << ma forse vi serviranno », sospira il padre amorevole, « per far conoscere ad altri i prodotti del nostro territorio ». Sicuro: tutto poteva valere ad innalzar Recanati nella estimazione degli uomini: i versi di Giacomo e il cacio pecorino! << Ingrandisci dunque la stima per le nostre contrade », rincalzava quel burlone di Carlo, «e fa apprezzare i suoi prodotti fisici, dopo che dei morali hai mostrato in te un fenomeno ».

V.

La repugnanza di Giacomo alla prelatura, e la rinunzia ai benefizii ecclesiastici della sua famiglia.

Or qui trova posto un rilevante episodio della vita di Giacomo. Morto nel dicembre del 1825 il buon zio Ettore, ch'era canonico e godeva di non so quanti benefizii ecclesiastici, Monaldo avrebbe voluto che di qualcuno di questi godesse Giacomino. Ma occorreva che per lo meno ei vestisse da abate e recitasse l'uffizio! E qui era il punto! A quegli obblighi l'amico di Pietro Giordani non sapeva nè voleva acconciarsi; eppure, quella rendita gli avrebbe fatto tanto comodo! O perchè beneficiato titolare non si nominava il fratello Pietruccio, e a lui intanto non s'accordava un po' del benefizio << con alcune riserve » ? Le quali Giacomo cercò di rappresentare al padre sotto l'aspetto più innocente (Bologna, 13 gennaio 1826).

La prima che io desidererei non essere obbligato ad altro abito e tonsura se non quello che usano qui anche i preti, e consiste solamente in abito nero o turchino, e fazzoletto da collo nero. La seconda è che bisognerebbe che io fossi dispensato dall'obbligo dell'uffizio divino, perchè, come Ella ben vede, quest'obbligo mi priverebbe quasi della facoltà di studiare. Io non posso assolutamente leggere se non la mattina. Se questa dovessi spenderla a dir l'uffizio, non mi resterebbe altro tempo per le mie faccende. Mi basterebbe di esser dispensato dall'uffizio divino anche a condizione di recitare una quantità di preci equivalente, giacchè, tolta la mattina, tutto il resto della giornata io non ho da far nulla, e ben volentieri ne spenderei qualche ora in preghiere determinate, purchè queste non fossero da leggersi.

Ve l'immaginate il futuro cantore della Ginestra tutto solo, in un cantuccio, a recitar rosarii? A Monaldo la sostituzione non parve assurda, e ne scrisse a Roma; ma dichiarò indispensabile l'abito da abate « con ferraioletto, collarino, chierica e cappello pretino ». E ad evitare equivoci o mezzi termini, ammonì (16 gennaio 1826):

Io gradirei, e sommamente gradirei, che vi piacesse lo stato ecclesiastico, e quindi il vestiario che gli corrisponde. Se ciò fosse, immediatamente potrei ottenervi i distintivi prelatizii, e potreste comparire nella società in un grado più rispettato, e aprireste una strada di considerarvi alla Corte nostra, la quale, per quanto vi apprezzi, non saprà mai come distinguervi, finchè non vestirete la sua montura. Altronde non vedo quale ripugnanza possa aversi ad un abito, clericale o prelatizio poco importa, il quale fu l'abito di tanti Santi, e lo fu pure di tanti uomini grandissimi in ogni genere di grandezza. Conosco che in addietro per i vostri rapporti letterarii avrete dovuto capitolare coi pregiudizii, o piuttosto colle malvagità del tempo; ma attualmente la vostra età, la vostra esperienza e il vostro nome vi mettono al di sopra di queste umiltà, e siete in grado di dare il tuono nella repubblica delle lettere, piuttosto che di riceverlo. Qual trionfo, figlio mio, per la causa dei Santi e dei saggi, e qual gloria per la Chiesa e per lo Stato, se l'uomo il più erudito forse dello Stato spiegasse arditamente la bandiera della Chiesa, e con ciò proclamasse altamente che gli studii, le lettere e le meditazioni dei saggi conducono a conoscere e a venerare la Chiesa, e a disprezzare e combattere i suoi palesi e nascosti inimici Voi con questo atto e in questi tempi fareste per la Chiesa di Gesù Cristo forse più che non fecero isolatamente i Màrtiri con lo spargimento del loro sangue, e di quest'atto eseguito con intenzione retta, pura, cristiana, vi trovereste applaudito in terra, e premiato gloriosamente in Cielo. Se per altro lo stato ecclesiastico non vi conviene, e se consentireste solamente ad assumerlo per questa miseria del benefizio, io vi consiglierei a non pigliarlo, perchè il galantuomo deve procedere in coerenza dei suoi principii, e non conviene ricevere stipendio da un principe, vergognandosi di portare la sua divisa. Mi pare che la benedizione di Dio non potrebbe essere nè sopra di voi nè sopra di me, e che insomma dobbiate restare o ecclesiastico provveduto, o laico senza beni di Chiesa. Nulladimeno me ne riporto a voi, e farò quanto sarà per piacervi.

In verità ch'io non so come un credente convinto, un gentiluomo e un padre affettuoso avrebbero potuto parlare più dignitosamente, onestamente e amorevolmente di così. Sarebbe, senza dubbio, indizio di deplorevole durezza di cuore far carico all'infermo e sprovveduto figliuolo della titubanza mostrata in quest' occasione; ma sarebbe anche indizio di durezza di mente voler continuare, quasi settariamente, a biasimar la condotta del padre, ora che i documenti ce la illuminano di luce così nuova.

L'esplicita lettera di Monaldo ne provocò un'altra, abbastanza esplicita, di Giacomo (25 gennaio). Ei si dichiara oramai convinto « pienamente della impossibilità di conciliare la sua

vita presente colla condizione di benefiziato ecclesiastico »; e prosegue:

Quanto al mutare stato, sebbene io non lasci di apprezzare infinitamente gli amorosi consigli che Ella mi porge, e le ragioni che ne adduce, debbo confessarle con libertà e sincerità filiale che io vi provo presentemente tal repugnanza, che quasi mi assicura di non esservi chiamato, ed anche di dovere riuscire poco atto all'adempimento de' miei nuovi doveri in caso che io li volessi abbracciare. Prevedo non impossibile, anzi più possibile che forse Ella stessa non crede, che col crescere dell'età, la mia disposizione si cangi totalmente, e mi conduca a quella risoluzione, alla quale ora sono così poco inclinato; ma in ciò mi pare di non dover prevenire l'effetto del tempo, prendendo oggi un partito che io sento che sarebbe affatto prematuro.

Il cuore di padre e la coscienza di buon cattolico del povero Monaldo eran messe a dura prova; chè in questa medesima lettera il figlio diletto e glorioso lo informava dei tormenti che gli cagionava il freddo clima di Bologna. Soggiungeva:

Qui non abbiamo gran neve, ma freddi intensissimi che mi tormentano in modo straordinario, perchè la mia ostinata riscaldazione d'intestini e di reni m' impedisce l'uso del fuoco, il camminare e lo star molto in letto. Sicchè dalla mattina alla sera non trovo riposo, e non fo altro che tremare e spasimare dal freddo, che qualche volta mi dà voglia di piangere come un bambino.... Sospiro continuamente la pri

mavera.

Il preteso tiranno rispose (31 gennaio):

A me, come a vostra madre, ha fatto grandissima pena il sentire quanto soffrite per il freddo. Io lo prevedevo, ed anche per questo avevo desiderato che ritornaste a passare l'inverno in casa, dove avreste ritrovata maggiore custodia, ed un clima meno rigoroso di quello di codesta città, riputata la ghiacciaia dell'Italia. Piaccia al Signore che non vi sia di danno, e presto la mitigazione dell'aria vi ridoni intiera salute!.... Venendo al benefizio, lodo la vostra risoluzione, e lodo anche che non pensiate ad abbracciare lo stato ecclesiastico, finchè non ci siate invitato da questo Spirito che spira dove vuole, e non dove sembrerebbe bene a noi che spirasse. Anche senza il collare si può esser santi, e san Pietro apre le porte del Paradiso anche senza la dimissoria del Vescovo. Mi sono però informato, ed ho conosciuto che Roma qualche volta accorda ai patroni di sospendere la presentazione del nuovo rettore per sei o otto anni, e di applicare le rendite ad un uso onesto, sopportati i pesi consueti. Io volentieri domanderò questa grazia, e cederò a voi le rendite del benefizio, ma bisogna maneggiar

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