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che, a parer suo, quella canzone non era « punto sediziosa, e soltanto libera e poeticamente ardita». Sennonchè Monaldo replicava il 9 aprile:

Con riflessione piena e matura, io non posso assolutamente permettere la ristampa delle due canzoni sull'Italia e Dante. I tempi non lo vogliono e molto meno il momento presente [era scoppiata la rivoluzione di Spagna, e stava per iscoppiare quella di Napoli], ch'è forse fra i più cattivi che abbiamo passati. Delle altre disapprovo quella sulla donna fatta morire, e taccio delle altre due perchè non le co

nosco.

Della canzone Nella morte ovvero Nello strazio di una giovane fatta trucidare..., veramente Monaldo non aveva visto, per caso, se non il solo titolo; ma tanto era bastato per fargli credere che contenesse << mille sozzurre nell'esecuzione, e mille sconvenienze del soggetto » 2. Quanto alle altre, ei si lasciava turbare da mille paure da fanciulli e da massime da duecentisti ». Ad ogni modo, Giacomo era troppo altero per volersi piegare a chiedergli il danaro necessario alla stampa dei versi risparmiati dalla strage. Preferi mandar fuori, a sue spese, l'unica canzone Al Mai. E fu un bene: così questa potè presentarsi al pubblico, come dice il Carducci,« sola, nella sua fosca fierezza». Il rancore però contro il censore domestico rimase a lungo. Ancora il 14 luglio 1828, Monaldo si vedeva costretto a scusarsi, scrivendo al figliuolo, che non si sa se rispondesse.

Tutti mi domandano le cose vostre per leggere, ed io sono svergognato per non averle. Spero che, venendo, le porterete tutte, o almeno mi guiderete per acquistarle; e così faremo pace con la vostra letteratura, la quale mi ha guardato sempre di sbieco, dopo quel po' di grugno che io feci alle due prime canzoni. Ma credo che a quest'ora quel mio giudizio sarà stato giudicato da voi meno sinistramente; e che, se non potete applaudire all'ingegno del vostro padre, almeno farete ragione al mio amorosissimo cuore.

Certo, in quegli anni di torbidi politici, le idee liberali espresse nelle due canzoni avrebbero potuto procurare noie

1 C. ANTONA-TRAVERSI, Lettere inedite di G. L., Città di Castello, Lapi, 1888, p. 152 e 166.

2 Cfr. la lettera di Giacomo al Brighenti del 28 aprile 1820.

e al poeta e alla sua famiglia. Quando furono stampate la prima volta, narrò poi Carlo, «i Carbonari pensarono che Giacomo le scrivesse per loro, o fosse uno dei loro; nostro padre si pelò per la paura». Ma quel grugno forse non fu tutto consigliato dalla sola prudenza. Poichè nel destino dei Greci Giacomo vedeva rispecchiato quello degl'Italiani, e perciò riguardava «i poveri Greci come fratelli », rivolgendo loro parole di alta simpatia nel Discorso, pubblicato nel Ricoglitore di Milano del 1827, in proposito di un'Orazione di Giorgio Gemisto 2; Monaldo odiava i Greci. E quando, nell'estate appunto del '27, ei seppe che le grandi Potenze meditavano di « prendere una parte decisiva negli affari dell'Oriente», scrisse, il 5 agosto, al figliuolo: « Così avranno pace i vostri Greci, e ne godo perchè sono uomini; ma mi pare che siano birbanti assai, ed è un avvenimento singolare che la somma legge della umanità imponga di soverchiare il Turco, quando forse ha più ragione di noi ». Peggio ancora: l'anno dopo, essendo giunta a Recanati la notizia che il conte Andrea Broglio recanatese era morto eroicamente, pugnando per l'indipendenza della Grecia, all'assalto di Anatolico, Monaldo la comunicò, con inopportuno buon umore, al figliuolo. « Anche Recanati », egli scrisse il 4 luglio 1828, « ha pagato il suo tributo di follia alla demenza del secolo, e ha tinta col suo sangue la terra classica della Grecia. E soggiungeva: « Probabilmente i Treiesi» [la famiglia Broglio, recanatese da solo due generazioni, era originaria di Treja] << reclameranno quel prode per diritto di origine, quasichè nato in Recanati per accidente; e noi, cedendoglielo senza contrasto, segneremo nei nostri fasti un pazzo di meno».

3

Nel novembre del 1823, Giacomo ricominciò a trattare col Brighenti per una edizione bolognese dei suoi Versi; ma questa volta bisognava far i conti con la Censura ecclesiastica. << Io», protestava Giacomo, il 3 aprile 1824, « ho un gran

1 Ricordi, giudizi ecc., in fine del vol. III dell'Epistolario, p. 431.

2 Cfr. la lettera alla signora Tommasini, del 18 aprile 1827.

3 Cfr. il bell'articolo del MESTICA, G. L. e i conti Broglio d' Ajano, nella Rivista d'Italia» del 15 settembre 1898.

G. LEOPARDI, I Canti.

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dissimo vizio, ed è che non domando licenza ai frati quando penso nè quando scrivo; e da questo viene che, quando poi voglio stampare, i frati non mi danno licenza di farlo ». L'editore riuscì a persuadere quei teologi censori : <<< una sorta di gente così ostinata come le donne » ; e la stampa fu fatta, all'insaputa di Monaldo. Ai primi di settembre, il nuovo volumetto, contenente dieci canzoni e le annotazioni dell'autore, era già sulla via di Recanati. E fu distribuito e letto anche a Roma. Sennonchè il governo austriaco, molto più sospettoso e inesorabile che non il pontificio, vietò che entrasse, e allora e poi, nella Lombardia e nel Veneto.

AD ANGELO MAL

I.

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Composizione e stampa della Canzone. La dedica al conte Trissino. La proibizione della Censura austriaca. I rapporti del Leopardi col Mai. Il frammento di Libanio.

».

In fronte a un esemplare della prima edizione di questa canzone, che è tra le carte napoletane, è scritto di mano del poeta: « Opera di dieci o dodici giorni, gennaio 1820, pubblicata i primi di luglio » In una lettera al Giordani, del 20 marzo 1820, il Leopardi disse essergli « uscita per miracolo dalla penna in questi ultimi giorni » ; e in una al Mai, del 27 ottobre: « La canzone fu scritta nei primi giorni di quest'anno, mentre ferveva la fama del Suo magnifico ritrovato ciceroniano». Pensò di stamparla subito: essa gli pareva < adattata al momento », e sarebbe stato perciò opportuno, scriveva il 7 aprile, farla « uscire mentre era calda la fama dell'ultima e più strepitosa scoperta del Mai. La mandò al Brighenti, con le altre due Per donna inferma e Nello strazio di una giovane (vedi più sù, p. 302); ma il padre, che venne a saperlo, mise il suo veto assoluto per l'ultima, condizionato per le altre. Onde Giacomo, fremente di rabbia, riscriveva il 28 all'editore:

Il titolo della seconda inedita si è trovato fortunatamente innocentissimo. Si tratta di un Monsignore. Ma mio padre non s'immagina che vi sia qualcuno che da tutti i soggetti sa trarre occasione di parlar di quello che più gl'importa, e non sospetta punto che sotto quel titolo si nasconda una canzone piena di orribile fanatismo.

Così questa venne alla luce essa sola: « Canzone di Giacomo Leopardi ad Angelo Mai. Bologna. MDCCCXX. Per le stampe di Jacopo Marsigli. Con approvazione » ». Portava in fronte la seguente dedicatoria:

Giacomo Leopardi

al conte Leonardo Trissino.

Voi per animarmi a scrivere mi solete ricordare che la storia de' nostri tempi non darà lode agl'Italiani altro che nelle lettere e nelle scolture. Ma eziandio nelle lettere siamo fatti servi e tributari; e io non vedo in che pregio ne dovremo esser tenuti dai posteri, considerando che la facoltà dell'immaginare e del ritrovare è spenta in Italia, ancorchè gli stranieri ce l'attribuiscano tuttavia come nostra speciale e primaria qualità, ed è secca ogni vena di affetto e di vera eloquenza. E contuttociò quello che gli antichi adoperavano in luogo di passatempo, a noi resta in luogo di affare. Sicchè diamoci alle lettere quanto portano le nostre forze, e applichiamo l'ingegno a dilettare colle parole, giacchè la fortuna ci toglie il giovare co' fatti com' era usanza di qualunque de' nostri maggiori volse l'animo alla gloria. E voi non isdegnate questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi ch'ai disgraziati si conviene il vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che 'l pianger giova. Io non posso dir questo, perchè il pianger non è inclinazione mia propria, ma necessità de' tempi e volere della fortuna.

La quale dedicatoria poi, nell'edizione del 1824, fu rifatta in quest'altra guisa:

Voi per animarmi a scrivere siete solito d'ammonirmi che l'Italia non sarà lodata nè anco forse nominata nelle storie de' tempi nostri, se non per conto delle lettere e delle sculture. Ma da un secolo e più siamo fatti servi e tributari anche nelle lettere, e quanto a loro io non vedo in che pregio o memoria dovremo essere, avendo smarrita la vena d'ogni affetto e d'ogni eloquenza, e lasciataci venir meno la facoltà dell'immaginare e del ritrovare, non ostante che ci fosse propria e speciale in modo che gli stranieri non dismettono il costume d'attribuircela. Nondimeno restandoci in luogo d'affare quel che i nostri antichi adoperavano in forma di passatempo, non tralasceremo gli studi, quando anche niuna gloria ce ne debba succedere, e non potendo giovare altrui colle azioni, applicheremo l'ingegno a dilettare colle parole. E voi non isdegnerete questi pochi versi ch'io vi mando. Ma ricordatevi che si conviene agli sfortunati di vestire a lutto, e parimente alle nostre canzoni di rassomigliare ai versi funebri. Diceva il Petrarca ed io son un di quei che 'l pianger giova. Io non dirò che il piangere sia natura mia propria, ma necessità de' tempi e della fortuna.

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