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dissi che niuno era per anche sceso nell' arena dietro a quel tragico, sebbene più d'una tragedia, degna della scena per altre doti, abbia poi veduta la luce in Italia.

E così in rapporto dell'Alfieri stesso, come de' prischi eroi le cui spente lingue il Leopardi si augurava di risentire (v. 177-78), è osservabile il Pensiero registrato nello Zibaldone il 30 maggio 1822 (v. IV, p. 249-50).

Se l'uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l'attendere alla filosofia ed alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che le cose e la vita umana e il regolamento della medesima e quasi che il mezzo fosse da preferirsi al fine), osservatelo anche da questo. Nessun uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non fosse nato per operare più e più gran cose degli altri, non avesse in sè maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini ordinarii, e per natura ed inclinazione sua primitiva non fosse più disposto all'azione e all'energia dell'esistenza che gli altri non sogliono essere. La Staël lo dice dell' Alfieri 1, anzi dice ch'egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de' tempi suoi (e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore, a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro tempo. Fra' quali, siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare altro che fagiolate, perciò nessuno o quasi nessuno è vero filosofo nè letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, mas'sime degl' inglesi e francesi, i quali, per la natura de' loro governi e condizioni nazionali, fanno e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno o sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente o straordinariamente pensano e scrivono.

1 Corinne, 1. VII, ch. 2. La Staël aveva scritto: « C'est avec un respect profond pour le caractère d'Alfieri que je me permettrai quelques réflexions sur ses pièces. Leur but est si noble, les sentiments que l'auteur exprime sont si bien d'accord avec sa conduite personnelle, que ses tragédies doivent toujours être louées comme des actions, quand même elles seraient critiquées, à quelques égards, comme des ouvrages littéraires... Alfieri, par un hasard singulier, était, pour ainsi dire, transplanté de l'antiquité dans les temps modernes; il était né pour agir, et il n'a pu qu'écrire: son style et ses tragédies se ressentent de cette contrainte. Il a voulu marcher par la littérature à un but politique: ce but était le plus noble de tous sans doute; mais n'importe, rien ne dénature les ouvrages d'imagination comme d'en avoir un. Alfieri... a voulu donner à ses tragédies le caractère le plus austère ».

ALLA SORELLA PAOLINA

E A UN VINCITORE NEL PALLONE

-

I.

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Data della composizione e prime tracce della canzone « Alla sorella Paolina ». Il giudizio del De Sanctis. Le donne e le sorti d'Italia. Le beate larve » della fanciullezza. La poesia delle idee indefinite. « miseri o codardi ». Il « gracil petto ». sprezziam». · Mimnermo e Anacreonte. a virtù. Il romanticismo del Leopardi. mineo core ». - La Virginia » alfieriana.

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I figliuoli « Virtù viva Amore sprone Il « fem

Dalle carte napoletane risulta, diversamente da quanto altri aveva supposto, che la canzone per la sorella Paolina fu scritta nell'ottobre e nel novembre del. 1822, dopo i canti A un vincitore nel pallone, Bruto minore, Alla primavera, Saffo, Ai Patriarchi, i quali erano stati composti fra il novembre 1821 e il luglio dell'anno successivo. In un foglietto delle carte medesime, sotto la data 1821, si legge questo abbozzo 1:

A Virginia Romana. Canzone dove si finga di vedere in sogno l'ombra di Lei, e di parlargli (sic) teneramente tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d'Italia.

E in verità questa a Paolina si potrebbe più propriamente chiamare la canzone di Virginia. 2 Il matrimonio della sorella,

1 Scritti vari inediti di G. L., pag. 395.

2 Cfr. DE SANCTIS, Studio su G. L., pag. 184 ss.

desiderato dai parenti e da lei e lietamente annunziato da lui ma miseramente sfumato, come sfumarono tutti gli altri simili trattati vivamente caldeggiati dal povero Giacomo,' non le servi che di pretesto. « Questa canzone per nozze è vestita a lutto; l'idillio prende sin dal principio una intonazione tragica, e riflette in sè non solo il lutto del poeta, ma il lutto dell'universo. Il matrimonio », riassumo ancora dal De Sanctis, « rimane una semplice occasione che fa divampare nell'anima poetica del giovane quella certa serie d'idee sul mondo e sull'uomo già fissa, divenuta già consuetudine e natura del suo intelletto.... È un canto funebre, la vita in tragedia.... Paolina presto scompare come un a solo schiacciato dal coro; e il coro sono le donne: Donne, da voi non poco La patria aspetta.... Questo è il vero contenuto della canzone, la missione educativa della donna foggiata a modo classico. Nelle idee si sente Alfieri, nella forma si sente Foscolo.... Si vede una immaginazione contenuta, che innanzi a' mali obbrobriosi della patria non si slancia nelle onde di un avvenire vendicatore, a cui non ha fede, ma si ripiega nelle memorie classiche, dove trova le orme de' primi studi e delle prime ispirazioni, e dove trova le immagini dei vetusti divini e di quei tipi maschili di donna, di cui s'innamorò Alfieri. Là trova la donna spartana,... e là trova Virginia. Ma il tipo nella contemplazione gli si raddolcisce, ed ecco venir fuori una Virginia non romana, ma umana, percossa dal coltello tra' dolci sogni della giovinezza. Alfieri avrebbe chiamato eroico quel paterno acciaro; Leopardi lo chiama rozzo in mezzo a un ritmo divino, che dando evidenza alla percossa aggiunge allo strazio, perchè in quel punto c'è in lui l'uomo più che il patriota, e vagheggia la trafitta con immaginazione d'artista. Un tratto simile non lo trovi in tutte le tragedie di Alfieri ».2

1 Cfr. l'Epistolario, vol. I, pp. 159-60, 338, 341, 343, 398, 406, 411, 421, 430, 434-35, 461 ecc.

2 Circa l'elemento alfieriano di questa canzone, si può utilmente vedere l'opuscolo del VACCALLUZZO, V. Alfieri e il sentimento patriottico di G. L., p. 27 ss.; per maggiori notizie sulla Paolina, il volume della BOGHEN-CONIGLIANI, La donna nella vita e nelle opere di G. L., p. 59 ss. G. LEOPARDI, I Canti.

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Il De Sanctis soggiunge: « Questa canzone è tra le più elaborate. Indovini molte cesellature, è martellata quasi ogni frase. Versi dolcissimi e di fattura moderna rimangono naufraghi tra forme arcaiche e mitologiche, e costruzioni e vocaboli insoliti; e paiono splendori sotterranei che ti giungono in mezzo al buio».

Mi par degno di nota che, ancora in una lettera da Pisa del 19 marzo 1828, Giacomo scrivesse all'Antonietta Tommasini:

Vi ringrazio della vostra affettuosa ultima, piena di così nobili sentimenti d'amor patrio. Se tutte le donne italiane pensassero e sentissero come voi, e procedessero conforme al loro pensare e sentire, la sorte dell'Italia già fin d'ora sarebbe diversa assai da quella che è. Non è da sperarsi che tutte vi sieno uguali, ma è da desiderarsi che molte sieno indotte dal vostro esempio a rassomigliarvi.

Le beate larve... (v. 2-3). Giacomo e qui e altrove rimpiange appassionatamente i sogni e le illusioni della fanciullezza. Nello Zibaldone egli annotò, il 16 gennaio 1821 (vol. II, p. 36-7):

Anzi, osservate che forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo pure dopo la fanciullezza e nel resto della vita non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, si riferiscono a lei, dipendono e derivano da lei, sono come un influsso e una conseguenza di lei; o in genere o anche in ispecie; vale a dire, proviamo quella tal sensazione, idea, piacere ecc., perchè ci ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella stessa sensazione, immagine ecc., provata da fanciulli, e come la provammo in quelle stesse circostanze. Così che la sensazione presente non deriva immediatamente dalle cose, non è un'immagine degli oggetti, ma della immagine fanciullesca; una ricordanza, una ripetizione, una ripercussione o riflesso della immagine antica. E ciò accade frequentissimamente. Così io, nel rivedere quelle stampe piaciutemi vagamente da fanciullo, quei luoghi, spettacoli, incontri ecc., nel ripensare a quei racconti, favole, letture, sogni ecc., nel risentire quelle cantilene udite nella fanciullezza o nella prima gioventù ecc. In maniera che, se non fossimo stati fanciulli, tali quali siamo ora, saremmo privi della massima parte di quelle poche sensazioni indefinite che ci restano, giacchè non le proviamo se non rispetto e in virtù della fanciullezza.

L'antico error (v. 3). Nello Zibaldone (III, 369), con la data del 25 settembre 1821 e a proposito d'una stanza dell'Ariosto (Orl. Fur. I, 65):

Le parole lontano, antico e simili sono poeticissime e piacevoli, perchè destano idee vaste e indefinite e non determinabili e confuse.

L'obbrobriosa etate... (v. 6). Nello Zibaldone (I, 366), in data 17 ottobre 1820, il poeta aveva già scritto:

.....è pur troppo acerbissima oggidì la condizione dell'uomo da bene che si unisce in matrimonio. Perchè s'egli non intende di portare e far sempre vivere i suoi figli nelle selve, deve tenere per indubitatissimo fino da quel primo punto che il suo matrimonio non frutterà al mondo altro che qualche malvagio di più. E questo non ostante qualunque indole, qualunque cura o arte di educazione ecc. Perchè, da che un uomo qualunque dovrà entrare nella società, è quasi matematicamente certo che dovrà divenire un malvagio, se non tutto a un tratto, certo a poco a poco; se non del tutto, certo in gran parte, a proporzione degli ostacoli ch'esso gli opporrà, ma che in tutti i modi certamente saranno vinti. E parimente dovrebb'esser dolorosissimo per l'uomo da bene il considerare nel mentre che alleva i suoi figli, che qualunque sua cura, qualunque immaginabile speranza di virtù ch'egli ne possa concepire, è certissimo per infallibile e continua esperienza, che saranno, almeno in gran parte, inutili e vane. Sicchè tutto quello che può ragionevolmente sperare e cercare il buon educatore, è d'istillare ne' suoi figli tanta dose di virtù, che venendo senza fallo a scemare, pur ne resti qualche poco, a proporzione della prima quantità.

Può riuscire interessante richiamare qui le parole che, circa quegli anni medesimi, scriveva il Foscolo da Hottingen, 30 marzo 1816, alla Donna gentile : « Al matrimonio ho sempre, e col cuore e con le illusioni della fantasia, aspirato; ma la sentenza Dove non è patria non ti procacciare figliuoli ha vinto ogni mio desiderio d'ammogliarmi ». E lo stesso Foscolo esclamava in uno dei Frammenti di sermoni (Poesie, Firenze, 1856, p. 283):

Orfano errai; di me pietà mi vinse;
Pietà, che nè di casti abbracciamenti,
Nè delle cure d'amorosa moglie

Io non compiacqui mai l'animo mio:
Ma nè a me col mio sangue educo affanni,
Nè al tiranno più nerbo e nuovi schiavi.

S'intende che il Leopardi non poteva conoscere nè la lettera nè il frammento foscoliano; ma gli è che il Foscolo e il Leopardi ricalcavano in codesti loro paradossali ragionamenti le paradossali argomentazioni dell'Alfieri.' Il quale,

1 Cfr. ZUMBINI, Studi sul Leopardi, vol. 1, p. 254-55.

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