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vuoto, che giova la forza e il coraggio? Che giova addestrare ed educare il corpo? Contradizione manifesta tra il fine e la conclusione. E stretto pure ad uscirne, il poeta vagheggia come fine della vita disprezzare la vita, gittandola così per gioco ne' rischi, e sentendo tutte le emozioni di questo gioco. Su questa via Leopardi avrebbe incontrato Byron, De Musset, tutt'i poeti scettici, che cercano nella vita non altro che la emozione, e pur maledicendola ubbidiscono ai suoi istinti, gittandosi negli amori, ne' piaceri, nelle avventure, in un moto assiduo, che allevii loro di dosso il peso della vita. Lo scetticismo non ha altra via aperta che questa, la via dell'emozione; balenata innanzi a Leopardi tra reminiscenze classiche in una forma condensata ed energica » 1.

1 Nuovi saggi critici, pag. 515 ss.

BRUTO MINORE, ALLA PRIMAVERA,

AI PATRIARCHI, SAFFO

I.

Data della composizione di questi Canti.

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Il preambolo al << Bruto ». Le prime idee del « Bruto» e della « Saffo ». Chiose al « Bruto». Le opinioni filosofiche espresse in questa canzone. Chiose alla « Saffo » ». Giudizio

dello Zumbini sulle due canzoni.

Nelle carte napoletane sono indicati esattamente i giorni in cui questi Canti furono composti: il Bruto, « in 20 giorni del decembre 1821 »; Alla Primavera, « in 12 giorni del gennaio 1822 » ; l'Ultimo canto di Saffo, « in 7 giorni del maggio 1822; l'Inno ai Patriarchi, << in 17 giorni del luglio 1822 ».

Come preambolo al Bruto minore, fu, nell'edizione bolognese del 1824, stampata la Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto vicini a morte; la quale l'autore medesimo soppresse nelle edizioni posteriori.' Essa comincia:

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1 Si può leggerla ora a pag. 460 ss. delle Prose originali di G. L. a cura di G. MESTICA, Firenze, Barbèra, 1890. Il prof. F. Tocco ha recentemente dimostrato, nell' Atene e Roma, a. II, p. 242 ss., che la sentenza di Teofrasto, conservataci da Diogene Laerzio, fu dal Leopardi interpretata con soverchia simpatia ma con poca verosimiglianza storica.

Io non credo che trovi in tutte le memorie dell' antichità voce più lacrimevole e spaventosa, e con tutto ciò, parlando umanamente, più vera di quella che Marco Bruto, poco innanzi alla morte, si racconta che profferisse in dispregio della virtù: la qual voce, secondo che è riportata da Cassio Dione, è questa: 0 virtù miserabile, eri una parola nuda, e io ti seguiva come tu fossi una cosa: ma tu sottostavi alla fortuna.... Quei moltissimi che si scandalezzano di Bruto e gli fanno carico della detta sentenza, danno a vedere l'una delle due cose: o che non abbiano mai praticato familiarmente colla virtù, o che non abbiano esperienza degl' infortuni, il che, fuori del primo caso, non pare che si possa credere. E in ogni modo è certo che poco intendono e meno sentono la natura infelicissima delle cose umane, o si maravigliano ciecamente che le dottrine del Cristianesimo non fossero professate avanti di nascere. Quegli altri che torcono le dette parole a dimostrare che Bruto non fosse mai quell'uomo santo e magnanimo che fu riputato vivendo, e conchiudono che morendo si smascherasse, argomentano a rovescio: e se credono che quelle parole gli venissero dall'animo, e che Bruto, dicendo questo, ripudiasse effettivamente la virtù, veggano come si possa lasciare quello che non s'è mai tenuto, e disgiungersi da quello che s'è avuto sempre discosto....

Che il poeta meditasse e vagheggiasse già da tempo quei concetti e quei sentimenti che poi espresse nel Bruto e nella Saffo, mostrano due brani di lettera al Giordani, l'uno del 2 marzo 1818, l'altro del 26 aprile 1819.

In somma io mi sono rovinato con sette anni di studio matto e disperatissimo in quel tempo che mi s' andava formando e mi si doveva assodare la complessione. E mi sono rovinato infelicemente e senza rimedio per tutta la vita, e rendutomi l'aspetto miserabile, e dispregevolissima tutta quella gran parte dell' uomo, che è la sola a cui guardino i più: e coi più bisogna conversare in questo mondo; e non solamente i più, ma chicchessia è costretto a desiderare che la virtù non sia senza qualche ornamento esteriore, e trovandonela nuda affatto, s'attrista, e per forza di natura, che nessuna sapienza può vincere, quasi non ha coraggio d'amare quel virtuoso in cui niente è bello fuorchè l'anima....

Io non trovo cosa desiderabile in questa vita, se non i diletti del cuore e la contemplazione della bellezza, la qual m'è negata affatto in questa misera condizione. Oltre che i libri, e particolarmente i vostri, mi scorano insegnandomi che la bellezza appena è mai che si trovi insieme colla virtù, non ostante che sembri compagna e sorella. Il che mi fa spasimare e disperare. Ma questa medesima virtù quante volte io sono quasi strascinato di malissimo grado a bestemmiare con Bruto moribondo. Infelice, che per quel detto si rivolge in dubbio la sua virtù, quand' io veggo per esperienza e mi persuado che sia la prova più forte che ne potesse dar egli, e noi recare in favor suo.

pro«e di

Nelle carte napoletane, tra alcuni Abbozzi e appunti per opere da comporre, è, sotto l'anno 1821, anche una brevissima traccia d'una canzone A Bruto, dove il poeta poneva di finger di vedere in sogno l'ombra di lui, parlargli teneramente tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d'Italia,... notando e compiangendo l'abiura da lui fatta della virtù ». Il 18 gennaio di quell'anno, egli aveva a buon conto preso nota del passo di Floro (IV, 7): « Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est quod moriens Brutus efflavit, non in re, sed in verbo tantum esse virtutem ». Due mesi dopo, il 19 marzo, potè esprimere nello Zibaldone le sue meditazioni, che avrebbero tra poco trovata la più cospicua forma poetica nella mirabile canzone.

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La nostra condizione oggidì è peggiore di quella de' bruti anche per questa parte. Nessun bruto desidera certamente la fine della sua vita, nessuno, per infelice che possa essere, o pensa tòrsi dalla infelicità colla morte, o avrebbe il coraggio di procurarsela. La natura che in loro conserva tutta la sua primitiva forza li tiene ben lontani da tutto ciò. Ma se qualcuno di essi potesse desiderar mai di morire, nessuna cosa gl'impedirebbe questo desiderio. Noi siamo del tutto alienati dalla natura, e quindi infelicissimi. Noi desideriamo bene spesso la morte e ardentemente, e come unico evidente e calcolato rimedio delle nostre infelicità; in maniera che noi la desideriamo spesso, e con piena ragione e siamo costretti a desiderarla e considerarla come il sommo nostro bene. Ora, stando così la cosa, ed essendo noi ridotti a questo punto, e non per errore ma per forza di verità, qual maggior miseria che il trovarsi impediti di morire e di conseguire quel bene che, siccome è sommo, così d'altra parte sarebbe intieramente in nostra mano; impediti, dico, o dalla religione o dall'inespugnabile, invincibile, inesorabile, inevitabile incertezza della nostra origine, destino, ultimo fine e di quello che ci possa attendere dopo la morte?

Io so bene che la natura ripugna con tutte le sue forze al suicidio, so che questo rompe tutte le di lei leggi più gravemente che qualunque altra colpa umana; ma da che la natura è del tutto alterata, da che la nostra vita ha cessato di esser naturale, da che la felicità che la natura ci avea destinata è fuggita per sempre e noi siam fatti incurabilmente infelici, da che quel desiderio della morte, che non dovevamo mai, secondo natura, neppur concepire, in dispetto della natura e per forza di ragione s'è anzi impossessato di noi; perchè questa stessa ragione c'impedisce di soddisfarlo e di riparare nell'unico modo

1 Scritti vari inediti, pag. 395.

2 Pensieri di varia filosofia ecc.; vol. II, p. 41 e 201-03.

G. LEOPARDI, I Canti.

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possibile ai danni ch'ella stessa e sola ci ha fatti? Se il nostro stato è cambiato, se le leggi stabilite dalla natura non hanno più forza su di noi, perchè non seguendole in nessuna di quelle cose dov'elle ci avrebbero giovato e felicitato, dobbiamo seguirle in quella dove oggidì ci nocciono e sommamente? Perchè, dopo che la ragione ha combattuta e sconfitta la natura per farci infelici, stringe poi seco alleanza, per porre colmo all' infelicità nostra, coll' impedirci di condurla a quel fine che sarebbe in nostra mano? Perchè la ragione va d'accordo colla natura in questo solo, che forma l'estremo delle nostre disgrazie? La ripugnanza naturale alla morte è distrutta negli estremamente infelici, quasi del tutto. Perchè dunque debbono astenersi dal morire per ubbidienza alla natura?

Il fatto è questo. Se la religione non è vera, s'ella non è se non un'idea concepita dalla nostra misera ragione, quest'idea è la più barbara cosa che possa esser nata nella mente dell'uomo; è il parto mostruoso della ragione il più spietato; è il massimo dei danni di questa nostra capitale nemica, dico la ragione, la quale avendo scancellate dalla mente, dall'immaginativa e dal cuor nostro tutte le illusioni che ci avrebbero fatti e ci faceano beati, questa sola ne conserva, questa sola non potrà mai cancellare se non con un intiero dubbio (che è tutt'uno, e ragionevolmente deve produrre in tutta la vita umana gli stessi effetti nè più nè meno che la certezza), questa sola che mette il colmo alla disperata disperazione dell'infelice. La nostra sventura, il nostro fato ci fa miseri, ma non ci toglie, anzi ci lascia nelle mani il finir la miseria nostra quando ci piaccia. L'idea della religione ce lo vieta, e ce lo vieta inesorabilmente e irrimediabilmente; perchè nata una volta quest' idea nella mente nostra, come accertarsi che sia falsa? e anche nel menomo dubbio come arrischiare l'infinito contro il finito? Non è mai paragonabile la sproporzione che è tra il dubbio e il certo con quella che è tra l'infinito e il finito, ancorchè questo certo, e quello quanto si voglia dubbio. Così che, siccome l'infelicità per quanto sia grave nondimeno si misura principalmente dalla durata, essendo sempre piccola cosa quella che può durare, volendo, un momento solo, e di più servendo infinitamente ad alleggerire qualunque male il saper di certo ch'è in nostra mano il sottrarcene ogni volta che ci piaccia; così possiamo dire che oggi, in ultima analisi, la cagione della infelicità dell'uomo misero ma non istupido nè codardo l'idea della religione, e che questa, se non è vera, è finalmente il più gran male dell'uomo e il sommo danno che gli abbiano fatto le sue disgraziate ricerche e ragionamenti e meditazioni o i suoi pregiudizi.

Qualche chioserella spicciola sulla canzone. I primi versi trovano un adeguato commento nelle considerazioni storiche che il Leopardi medesimo aveva fatte, nello Zibaldone (I, 106-8), a proposito delle orazioni politiche di Cicerone.

Cicerone predicava indarno; non c'erano più le illusioni d'una volta, era venuta la ragione, non importava un fico la patria, la gloria,

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