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nell'amore. Egli si slancia fervidamente verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, tutto l'incanto, tutte le attrattive, tutta la bellezza, l'ama con ogni trasporto; ma, quasi che egli non fosse punto corrisposto, sente ch'egli non è partecipe di questo bello che ama ed ammira, si vede fuor della sfera della bellezza, come l'amante escluso dal cuore, dalle tenerezze, dalle compagnie dell'amata. Nella considerazione e nel sentimento della natura e del bello, il ritorno sopra sè stesso gli è sempre penoso. Egli sente subito e continuamente che quel bello, quella cosa ch'egli ammira ed ama e sente, non gli appartiene. Egli prova quello stesso dolore che si prova nel considerare o nel vedere l'amata nelle braccia di un altro o innamorata di un altro e del tutto noncurante di voi. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri (e questi, cosa molto più acerba a considerare, meno degni di lui, anzi indegnissimi del godimento del bello e della natura, incapaci di sentirla e di conoscerla ecc.); e prova quello stesso disgusto e fierissimo dolore di un povero affamato, che vede altri cibarsi dilicatamente, largamente e saporitamente, senza speranza nessuna di poter mai gustare altrettanto. Egli insomma si vede e conosce escluso senza speranza e non partecipe dei favori di quella divinità che non solamente è presente, ma gli è anzi così presente, così vicina, ch'egli la sente come dentro sè stesso e vi s'immedesima, dico la bellezza astratta e la natura.

Nelle carte napoletane s'è rinvenuto una specie di commento che il Leopardi medesimo aveva scritto intorno a questa canzone. Vi si dice:

Il fondamento di questa Canzone sono i versi che Ovidio scrive in persona di Saffo, Epist. 15, v. 31 segg.: Si mihi difficilis formam natura negavit ecc. La cosa più difficile del mondo, e quasi impossibile, si è d'interessare per una persona brutta; e io non avrei preso mai questo assunto di commuovere i lettori sopra la sventura della bruttezza, se in questo particolar caso, che ho scelto a bella posta, non avessi trovato molte circostanze che sono di grandissimo aiuto. Cioè, 1o) la gioventù di Saffo, e il suo esser di donna. Noi scriviamo principalmente agli uomini. Ora ni moza fea, ni vieja hermosa [nè ragazza brutta, nè vecchia bella], dicono gli Spagnuoli. 20) Il suo grandissimo spirito, ingegno, sensibilità, fama, anzi gloria immortale, e le sue note disavventure, le quali circostanze par che la debbano fare amabile e graziosa, ancorchè non bella; o se non lei, almeno la sua memoria. 30) E sopra tutto, la sua antichità. Il grande spazio frapposto tra Saffo e noi confonde le immagini, e dà luogo a quel vago ed incerto che favorisce sommamente la poesia. Per bruttissima che Saffo potesse essere, che certo non fu, l'antichità, l'oscurità de' tempi, l'incertezza ecc., introducono quelle illusioni che suppliscono ogni difetto.

In questi due canti il Leopardi pare abbia seguito l'esempio

di Orazio, per quel rievocare personaggi storici o mitici, e mettere nella loro bocca la parte maggiore e migliore dell'ode. Cfr. 1. I, od. 15; III, 3 e 27.

1

Bruto minore e Saffo, osserva lo Zumbini, << sono due concezioni sorelle che rispecchiano l'animo del poeta: amendue informate dall'idea che la virtù per sè sola è poca cosa, e che anzi nelle sue lotte soggiace sempre alle forze avverse.... Poi, i personaggi delle due canzoni ci appariscono come dotati di qualità anche superiori a quelle che avevano dalla tradizione e dalla storia. Martire di libertà l'uno, martire di amore l'altro, màrtiri entrambi di quel pensiero che, conosciute le leggi della vita, si disamora della vita. Parrebbe che quello stesso levarsi dei grandi spiriti a tanta altezza, facesse loro odioso il vivere e bello il morire...... Saffo e Bruto ne diventano straordinariamente sublimi: l'una nel seno della civiltà greca, l'altro della romana, rappresentano quei magnanimi errori, onde i due popoli fecero cose si grandi ed hanno due storie insuperabili. Se dopo Saffo quelle felici illusioni durarono ancora un gran tratto di tempo, alla caduta di Bruto già cominciavano a tramontare: sembrò, dunque, al Leopardi che la morte dell'eroe fosse il confine tra la giovinezza del mondo e la maturità, seguita poi ai tempi nostri dalla vecchiezza. Bruto, eroe e martire di quei magnanimi errori, viene colla sua terribile sentenza a significare che la gioventù, lo splendore e gl'ideali tutti della vita umana perivano per sempre! Simili nell'idea suprema che le anima, queste canzoni sono poi molto diverse nelle qualità particolari dei loro personaggi, nelle sentenze accessorie e nelle immagini. In Bruto c'è dell'infernale, in Saffo del celestiale; l'uno arieggia Capaneo, l'altra, benchè più lontanamente, Piccarda >>

1 Studi sul Leopardi, vol. I, pag. 304.

II.

» del

La canzone « Alla Primavera » e alcuni concetti già espressi nelle lettere e nello Zibaldone. Le favole mitologiche e i poeti moderni. Il sermone « Sulla Mitologia Monti. Esposizione e giudizio dello Zumbini. - L'« Inno ai Patriarchi » e gl' « Inni Cristiani » . Traccia dell' « Inno ai Patriarchi ». Abbozzo dell' « Inno al Redentore ».

Colla canzone Alla Primavera ha forse stretto rapporto ciò che il Leopardi scriveva al Giordani, il 6 marzo 1820.

Sto anch'io sospirando caldamente la bella primavera come l'unica speranza di medicina che rimanga allo sfinimento dell' animo mio; e poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro, un bel raggio di luna, e sentendo un'aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla natura, la cui voce mi pareva di udire dopo tanto tempo. E in quel momento dando uno sguardo alla mia condizione passata, alla quale era certo di ritornare subito dopo, com'è seguìto, m'agghiacciai dallo spavento, non arrivando a comprendere come si possa tollerare la vita senza illusioni e affetti vivi, e senza immaginazione ed entusiasmo; delle quali cose un anno addietro si componeva tutto il mio tempo, e mi facevano così beato, non ostante i miei travagli. Ora sono stecchito e inaridito come una canna secca, e nessuna passione trova più l'entrata di questa povera anima, e la stessa onnipotenza eterna e sovrana dell'amore è annullata a rispetto mio nell'età in cui mi trovo.... Questa è la miserabile condizione dell' uomo, e il barbaro insegnamento della ragione, che, i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose sia sempre e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta la nostra vita secondo il sentimento di questa nullità finirebbe il mondo, e giustamente saremmo chiamati pazzi, in ogni modo è formalmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole per ogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie, giacchè tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua dimenticanza di quella verità universale, che tutto è nulla. Queste considerazioni io vorrei che facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano dello smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicità umana sia riposta nella cognizione del vero, quando

non c'è altro vero che il nulla; e questo pensiero, ed averlo continuamente nell'animo, come la ragione vorrebbe, ci dee condurre necessariamente e dirittamente a questa disposizione che ho detto; la quale sarebbe pazzia secondo la natura, e saviezza assoluta e perfetta secondo la ragione.

E quasi un primo abbozzo di essa canzone è quel pensiero, che il Leopardi notò nel suo Zibaldone (I, 175) verso la fine del 1819.

Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l'immaginazione umana, e viva umanamente, cioè abitata o formata di esseri uguali a noi! quando nei boschi desertissimi si giudicava per certo che abitassero le belle Amadriadi e i fauni e i silvani e Pane ecc., ed entrandoci e vedendoci tutto solitudine pur credevi tutto abitato! E così de' fonti abitati dalle Naiadi ecc. E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare fra le mani, credendolo un uomo o donna, come Ciparisso ecc.! E così de' fiori ecc., come appunto i fanciulli.

È un fatto singolarissimo della poesia moderna questo, secondo ha già osservato lo Zumbini,' che «i maggiori poeti dei tempi ultimi hanno considerato la morte delle favole antiche come uno dei più gravi danni che mai potessero intervenire alla vita umana e segnatamente all'arte. Diversi di fede, d'ingegno, di lingua e di affetti, quei poeti furono mirabilmente concordi nel dolersi della perdita di quella gran felicità umana che, per loro giudizio, derivava dalla fede nelle favole mitologiche. Tanta unità, tanta concordia in un pensiero e in un amore da cui parrebbe avesse ad essere aliena la coscienza moderna, è un fatto molto notevole e degno che si studi nelle sue cause e nelle sue manifestazioni poetiche ». Lo Zumbini medesimo studia codesto sentimento nelle poesie del Wordsworth, del Keats (la cui ode Sopra un'urna greca ci fa pur ricordare del canto leopardiano Sopra un basso rilievo antico sepolcrale), dello Shelley, del Platen, dello Schiller (Die Götter Griechenlands, gli Dei della Grecia, è di tutte le altre la poesia che più s'avvicina a quella del Leopardi); e anche nel carme Sulla Mitologia del Monti. Il

1 Studi sul Leopardi, I, 264.

quale, benchè lamenti la morte delle divinità mitologiche per ragioni quasi meramente estetiche, tuttavia delle antiche finzioni tocca « con una tenerezza non minore di quella che per esse ha il Leopardi ». Così quando accenna al rosignuolo, dolendosi che in quel canto non più ci sia dato intendere una storia di dolore; così ancora quando lamenta che dentro la buccia degli alberi non sentiamo più palpitare il petto di qualche gentile creatura. Ma, non ostante tutte queste ed altre somiglianze, nel Monti ci sembra rimpiccolito quel grande concetto e quel grande dolore, che informano i canti degli altri poeti moderni. Egli considerava la morte delle favole mitologiche come un effetto delle dottrine romantiche, e confidava che dottrine migliori potessero ristorare i danni prodotti da quelle; perchè credeva, in sostanza, che ciò che un tempo animava la natura, fosse quasi una creazione dei poeti antichi, mossi dal fine di poter così meglio dilettare. Forse non sentì, certo non mostrò di sospettare, che la rovina di quelle immaginazioni procedeva da cause più profonde, e che dunque non si poteva più rifare nella immaginazione ciò che non poteva più rivivere nella coscienza dei moderni.

Come nelle altre canzoni del secondo periodo il Leopardi ammira nei nostri avi « le virtù civili, l' incomparabile carità patria, l'amore immenso alla gloria, tutti insomma quelli ch'egli stesso chiamava forti errori »; in questa della Primavera ammira la ricchezza della fantasia e del sentimento, onde i nostri padri popolarono dei più leggiadri fantasmi il mondo fisico gli ameni errori. Nel sentire il nuovo insperato palpito che la primavera gli destava nel seno, il poeta grida con uno sconsolato desiderio: Vivi tu, vivi, o santa Natura? vivi....? Codesto vivi, tre volte ripetuto, « par l'angosciosa interrogazione di un figlio, che, assistendo allo spegnersi della madre, non voglia credere a ciò che pure i suoi occhi gli hanno già detto. Poi, quasi togliendosi di un tratto al dubbio tormentoso, ritorna a cantare di quel tempo quando la natura, non che viva, era ancor bella di gioventù e tutta affetto materno per l'uomo ». E comincia una maravigliosa rappresentazione, che ha un tono tra l'elegia e l'inno: l'accento dell'elegia soverchia, quando il poeta guarda al pre

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