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perchè era una lusingatrice. E la vendetta del poeta la raggiunse. Ma non si può far colpa a lui se gli amici la riconobbero bensì sotto il peplo voluttuosamente trasparente dell'etèra, non però nelle diafane sembianze della pietosa visitatrice. E si prova un senso di disgusto e di compassione insieme nel sentirla chiedere la Ranieri, con affettata ingenuità, sette mesi dopo la morte di Giacomo:

Molti ammiratori del povero Leopardi... mi hanno più volte chiesto e richiesto chi sia l'Aspasia su cui quell'insigne poeta scrisse canzone. Per carità, ditemelo voi se lo sapete, per togliermi da una filastrocca di lettere inutili e noiose.

Commediante ! Il Ranieri le rispose:

Aspasia siete voi; e voi lo sapete, o almeno lo dovreste sapere, o almeno io immaginava che lo sapeste, perchè leggendo quel componimento, mi scriveste non so che per darmi a intendere che l'avevate inteso. Nondimeno io ho detto e dirò sempre di non saperlo, perchè non so se avete o no piacere che si sappia, nel che io non voglio che stare alla vostra espressa volontà, così parendomi che m'ingiunga la mia delicatezza. 1

Quando precisamente e perchè dagli occhi del poeta cadesse la benda, non sappiamo. Certo, fin da quell'agosto 1832, ei ricominciò a star male, e peggiorò nell'autunno, tanto che la morte per poco non se lo strinse al virgineo seno. Nell'ottobre scriveva al padre :

Sono proprio abîmé di debolezza.... Sono troppo debole, e appena scrivo queste due righe.... La malattia mi ha fatta una forte impressione, perchè mi ha trovato straordinariamente estenuato dal caldo.

letta, Donna del cor di Pericle, Al fianco suo m'aspetta»; ma ognun vede quanto male a proposito! Se si vuol citare un poeta moderno, che già il nome dell'etèra famosa usasse a strazio, occorre ricordare il Parini, che nel Mattino (v. 611) dà alla celebrata Ninon de Lenclos

l'appellativo di « novella Aspasia ».

1 Questa lettera è stata pubblicata da AURELIO GOTTI, nella «Nuova Antologia» del 1° novembre 1903, p. 42. Ed ivi è pure stampata un'altra jettera del Ranieri alla Fanny, del 1° luglio 1837, nella quale le narrava i particolari della morte di Giacomo. Si firma : « Il vostro disperato A. Ranieri ».

E di qual caldo!... Una lettera al De Sinner, cominciata nel gennaio (1833), ei non potè finirla che nell'aprile! Consalvo rappresentava troppo al vivo la sua parte; ma ahimè! non sognava più nè misericordia nè amore. L'« inganno estremo »> era perito, e con esso, nonchè la speme, fino il desiderio dei <«< cari inganni ». La terra gli appariva indegna dei suoi moti e dei suoi sospiri; e la vita, non altro che « amaro e noia ». La bella immaginazione dell'Amore e della Morte affratellati, era stata quasi sogno d'infermo: « al gener nostro il fato Non donò che il morire ». E l'esasperato poeta, Capaneo del pensiero, lanciò allora alla Natura e a Dio la titanica bestemmia del canto A se stesso, che potrebb' essere incisa com'epigrafe su qualcuno degli avelli della Città di Dite. 1 Più tardi, egli meditò di rivolgere Ad Arimane, che in

vocava

Re delle cose, autor del mondo, arcana
Malvagità, sommo potere e somma

Intelligenza, eterno

Dator de' mali e reggitor del moto,

«

un inno, per chiedergli: Perchè, dio del male, hai tu posto nella vita qualche apparenza di piacere? l'amore ?... per travagliarci col desiderio, col confronto degli altri e del tempo nostro passato ecc.?». E avrebbe terminato protestando:

-

Pianto da me per certo tu non avrai: ben mille volte dal mio labbro il tuo nome maledetto sarà ecc. Ma io non mi rassegnerò ecc. Se mai grazia fu chiesta ad Arimane ecc., concedimi ch' io non passi il settimo lustro. Io sono stato, vivendo, il tuo maggior predicatore ecc., l'apostolo della tua religione. Ricompensami. Non ti chiedo nessuno di quelli che il mondo chiama beni: ti chiedo quello che è creduto il massimo de' mali, la morte.... Non posso, non posso più della vita.

Con che acre compiacimento il poeta contemplerà la ruina onde furono involte e ville e cólti e giardini e palagi e città famose, là, << su l'arida schiena Del formidabil monte Ster

1 Il terribile verso « E l'infinita vanità del tutto», che par traduca il versetto dell' Ecclesiaste : Vanitas vanitatum et omnia vanitas », al poeta era spuntato in mente fin dal 1819 (Zibaldone, I, 181), non so se meno angoscioso: «Oh infinita vanità del vero!».

minator Vesèvo » ! E sdraiato, neghittoso ed immobile, sui campi cosparsi di cenere infeconda o ricoperti dall'impietrata lava, ei ripenserà a colei cui aveva prostrato l'indomito core; e pur rimpiangendo i gentili errori, pure arrossendo del giogo indegno, s'allegrerà, mirando il mare la terra e il cielo, che quella suprema illusione, l'amore, sia anch'essa svanita; e amaramente sorriderà. « Il riso dell'uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità », aveva egli osservato già nel 1820 (I, 218), « è segno di disperazione già matura» L'amaro sorriso, sulle brulle ed arse falde del Vesuvio, è l'ultima espressione del pessimismo leopardiano.

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Il sorriso in cospetto del mare di Napoli. sero solitario » .

L'ascensione al Vesuvio.

».

L'Infinito « Il pasGoethe.

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Il fiore della ginestra. La rovina desolata. Il sar

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castico accenno al Mamiani. La lotta dell'uomo contro la natura. La marina napoletana ricordata solo come specchio di terrori. La lava descritta dalla Stäel. Il sepolto scheletro » . La solidarietà umana nel dolore. Lo svolgimento del pensiero filosofico del Leopardi,

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V'hanno, nella storia dei popoli e degl'individui, ravvicinamenti singolarmente suggestivi e densissimi di poesia: di quella poesia per sè stessa eloquente, che tutti comprendono senza bisogno d'interpreti. Pensate a Mario seduto sulle rovine di Cartagine. È una situazione che diremmo dantesca o michelangiolesca, dacchè solo quei nostri due grandi seppero il magistero di quegli sbozzi, così potenti nel loro si

Da una conferenza, detta il 18 maggio 1906 nella stupenda sala delle statue nel Castello Sforzesco, gentilmente concessa dal sindaco senatore Ponti, che volle esser presente. Gli studenti delle scuole secondarie milanesi avevan promossa una sottoscrizione per venire in soccorso dei danneggiati dell' ultima terribile eruzione vesuviana; e invitarono il professore di letteratura italiana nell'Accademia Scientifico-letteraria, che è meridionale di nascita e Consigliere Comunale di Milano, a concorrere con l'opera sua alla buona riuscita della loro nobile e generosa iniziativa. La conferenza fu poi pubblicata dal Treves, nell'Illustrazione Italiana del 2 e 9 settembre 1906.

lenzio e nella loro immobilità. Pensate a Dante, negli ultimi anni dell'esilio sconfortato, quando tutte le speranze eran cadute, dalla sognata restaurazione dell'Impero al rimpatrio nel dolcissimo seno di Firenze; immaginatelo per le vie deserte e silenti di Ravenna, già capitale di Onorio e di Odoacre, già splendida residenza di Teodorico e di Narsete, allora piccolo staterello della piccola famiglia de' Polenta. Immaginatelo ancora, quel divino meditabondo, traversare l'ombra perenne della << Pineta in sul lito di Chiassi », e porgere l'orecchio alla misteriosa voce che vi si raccoglie di ramo in ramo al soffio di Eolo o di Scirocco, mentre l'Adriatico mormora poco lontano. Pensate al Tasso, che siede sotto la quercia presso il convento di Sant'Onofrio, e guarda Roma avvolta nella luce crepuscolare e discorre del cielo con qualcuno di quei frati ospitali, mentre ancora la stanca fantasia lo trasporta a Urbino e a Ferrara, a Bergamo e a Sorrento. Pensate a Vittorio Alfieri, che s'aggira su pel lung' Arno solitario, e accorda il ritmo del suo pensiero sdegnoso al fruscio sordo del fiume sacro alla poesia italiana, ed entra poi nelle buie navate di Santa Croce, e abbraccia le urne di Machiavelli e di Galileo. Ebbene, un altro di codesti ravvicinamenti suggestivi offre alla nostra immaginazione Giacomo Leopardi che va a terminare la sua vita dolorosa là, << su l'arida schiena » del Vesuvio sterminatore, in prossimità dell'estinta Pompei, in cospetto dei riflessi sanguigni che la marina di Capri e di Mergellina rendono della lava terribilmente minacciosa.

A Napoli egli s'era avviato quando si sentiva presso che disfatto; e pur tra le carezze del dolce clima, dovè convincersi che il nord e il mezzogiorno erano « per lo meno indifferenti» ai suoi mali. Laggiù, dopo qualche mese, era passato ad abitare «in un'altura a vista di tutto il golfo di Portici e del Vesuvio, del quale », scriveva il 5 aprile 1834 al padre, « contemplo ogni giorno il fumo ed ogni notte la lava ardente». Poi, aveva, col fido Ranieri, mutato ancora

1 Dal Ranieri, Sette anni di sodalizio, pag. 35, apprendiamo che la nuova dimora era in Via Nuova Santa Maria Ogni Bene, sulla costa della collina di San Martino.

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