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lievissima, mentre ha quello di affrontare il nostro assai spesso... Marianna mia, non se ne può più affatto affatto. Io vorrei che tu potessi stare un giorno solo in casa mia, per prendere un'idea del come si possa vivere senza vita, senza anima, senza corpo!

Giacomo, il tenero cantore di Nerina e di Silvia, di codeste fanciulle tenerelle strappate alla sua innocente contemplazione pria che l'erbe inaridisse il verno», combattute e vinte da chiuso morbo », ha ancora qualcosa da dire su quella tal madre di famiglia.

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Sentiva infinita compassione per li peccatori, ma pochissima per le sventure corporali o temporali, eccetto se la natura talvolta la vinceva. Le malattie, le morti le più compassionevoli de' giovanetti estinti nel fior dell'età, fra le più belle speranze, col maggior danno delle famiglie o del pubblico ecc., non la toccavano in verun modo. Perchè diceva che non importa l'età della morte, ma il modo: e perciò soleva sempre informarsi curiosamente se erano morti bene secondo la religione, o, quando erano malati, se mostravano rassegnazione ecc. E parlava di queste disgrazie con una freddezza marmorea.

Quando, nel 1847, uno dei tanti ammiratori del sommo poeta si recò in pellegrinaggio a Recanati per visitarne la casa, nella camera dov'egli era nato, « innanzi un gran letto »>, vide« ritta in piedi la madre sua: maestosa della persona, austera, coi capelli candidissimi ». Il visitatore proruppe: «Benedetta colei che 'n te s'incinse!». Ma la matrona non diè segno di commozione. «Soltanto, levando gli occhi al cielo, esclamò: Che Dio gli perdoni! » '. Avesse almeno detto: Che Dio gli abbia perdonato! « Quell'altra vittima, Paolina, quando novella gli giunse che le era morto il fratello grande e infelice, segnò nelle sue note il funereo giorno, aggiungendo sotto: Addio, Giacomino mio: ci rivedremo in paradiso! » 2.

1 F. ZAMBONI, Roma nel Mille, Firenze 1875, p. 408.

2 CARDUCCI, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L., p. 30. Può qui trovar posto il curioso e caratteristico aneddoto raccontato dal D' Ovidio (nel «Corriere della sera» del 12-13 gennaio 1898). «Il mio rimpianto amico Ippolito Amicarelli », egli narra (l'ottimo Amicarelli, che finì preside del r. Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, è l'autore del libro Della lingua e dello stile italiano; intorno a lui

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Mai, al Monti e al Giordani. La genesi dell'ammirazione e dell'amicizia pel Giordani, prima ancora di conoscerlo di persona.

Non intendo di rifar passo per passo la storia di quella fanciullezza impaziente e di quella giovinezza sconsolata. Qualcosa di più particolare dovrò dirne illustrando le poesie, che son come maravigliosi e fragranti fiori di passione sbocciati in quell' inamabile deserto. Qui mi contenterò di un

ora è da vedere il magistrale Saggio del D'Ovidio medesimo, nei Rimpianti, Milano-Palermo, 1903, pag. 201 e ss.), << che fu deputato per la sua nativa Agnone al primo Parlamento italiano, viaggiando una volta nell'Italia centrale si trovò per un tratto di ferrovia da solo a solo con una signora attempata. Attaccarono discorso. La signora disse esser di Recanati; egli cominciò a tempestarla di domande circa il Leopardi, le chiese della sorella Paolina. La Paolina, chè era proprio lei, e in quello scompartimento era salita appunto perchè ci aveva visto lui prete, commossa a quelle domande e scorgendo la commozione del suo interlocutore, gli chiese subito se a parer suo Giacomino fosse potuto andare in paradiso. L'Amicarelli che, patriotta ardente, era però insieme credente sincero e assai più fervido che generalmente non paresse, si trovava d' essersi posto tante volte anche lui quel problema; poichè del Leopardi era, non occorre dirlo, ammiratore grande, e non lo leggeva nè vi pensava mai senza lacrime. Fattagli ora quella domanda, e da quella Paolina lungamente cara a lui di riverbero come a tutti i lettori del Leopardi, e conosciuta lì per lì la prima volta e quasi ingenuamente supplicante da lui la celeste beatitudine del fratello adorato, si sentì nell'animo una persuasione più chiara, una speranza più sicura che non avesse mai avuta, e con focosa parola dimostrò, spiegò, assicurò in quattr' e quattr' otto che il povero Giacomo era andato in paradiso di volo: con tutte le scarpe, come diciam noi Meridionali. La Paolina si stemperò in pianto, e per gratitudine a quella sommaria sentenza di canonizzazione si fece a forza promettere dall'Amicarelli una visita a Recanati. La promessa,

rapido cenno, avendo soprattutto a guida l'Epistolario, ch'è di per sè stesso uno squisito romanzo psicologico. '

Durante la luminosa meteora del Regno Italico, Milano era cominciata a essere quel che poi, con denominazione non iscevra d'alterigia, è stata detta la capitale morale d'Italia. Certo, come asseriva il Giordani (in una lettera al Leopardi del 10 giugno 1817), « qui gli uomini sono come altrove. Quelli che più potrebbero e dovrebbero leggere, i nobili e i preti, sono in Lombardia come nella Marca e in tutto il mondo. Poco si legge; e quel poco, di frivolezze ». Ma insomma fra i tigli dei boschetti suburbani ancor fremevano le note argute del cantore del Giorno; e Ugo Foscolo veniva ad ispirarvisi, e sospirava una patria, con versi e con prose che suscitavano incendii. Vincenzo Monti, reputato principe dei letterati viventi, e Pietro Giordani, Angelo Mai, Silvio Pellico, Giovanni Berchet, avevano fissata la loro dimora qui, dove, tra l'altro, fiorivano due Riviste, lo Spettatore e la Biblioteca Italiana, che raccoglievano, insieme con parecchia borra, pur quel po' di buono che si producesse tra noi nel campo delle lettere e delle scienze morali. E qui, in un conciliabolo di pochi ma baldi novatori, maturava quel periodico battagliero che fu chiamato Il Conciliatore; e nella feconda quiete degli studi e della felicità domestica, maturava la gloria di Alessandro Manzoni. 2

Editore dello Spettatore era il libraio Antonio Fortunato Stella, che aveva la sua casa e il suo negozio nelle viuzze,

com'egli soleva fare di tutte quelle di simil genere, non la mantenne: ma nemmeno, credo, avrebbe mantenuti tutti gli argomenti che, nell'impeto di una duplice compassione, aveva snocciolati con opportuna facilità a quella nobile donna, a cui toccò il singolar destino, come d'esser celebre per nozze che non ebbero mai luogo, così di rimaner a struggersi per la memoria d'un fratello di cui aveva in tanto orrore le dottrine ».

1 Con brani di lettere appunto già i professori G. Piergili e C. Annovi son riusciti a mettere insieme, l'uno la Vita di G. L. scritta da esso, Firenze, Sansoni, 1899; l'altro, una Biografia di G. L., Per la storia di un'anima, Città di Castello, Lapi, 1898.

2 Mi sia lecito rimandare al mio scritto: Il decennio dell'operosità poetica di A. Manzoni, premesso al volume Le Tragedie, gl' Inni sacri e le Odi di A. Manzoni, Milano, Hoepli, 1907.

ora distrutte, attorno a Santa Margherita. Il conte Monaldo, fin dai primi giorni del 1816, aveva fatto capo a lui per l'acquisto di libri moderni e per l'abbonamento a qualche rivista italiana e straniera. E subito, nel febbraio dell'anno stesso, gli aveva offerto la stampa di due opere del suo maraviglioso figliuolo: il Saggio sugli errori popolari degli antichi e il Discorso sopra la vita e le opere di M. Cornelio Frontone, col volgarizzamento degli scritti testè pubblicatine dal dottor Angelo Mai, della Biblioteca Ambrosiana. Lo Stella diede da esaminare al Mai il Discorso, che gli era dedicato, e mise il Saggio in quarantena; ma intanto esortò l'erudito novellino a mandargli qualcosa di più spiccio e acconcio per la rivista. Nell'agosto poi, compiendo un viaggio per l'Italia centrale, capitò a Recanati, ospite desiderato e festeggiato del conte Monaldo; e portò a Giacomo una lettera del Mai, il quale con belle parole lo consigliava a rimandare a miglior tempo la stampa del Frontone. Il giovanetto, se da un lato rimase compiaciuto dell'interessamento d'un tanto uomo, dall'altro capì il latino; e, riscrivendo più tardi (21 febbraio 1817) al Mai, gli dichiarò che oramai anche a lui quel lavoro pareva « indegno di veder la luce» e lo condannava perciò a starsene « in tenebre eternamente ».

Nei pochi giorni che lo Stella rimase a Recanati, l'autore esordiente ebbe modo di meglio annodare con lui quei rapporti di amicizia, che gli valsero poi a farsi conoscere, che voleva dire ammirare ed amare, fuori del suo guscio, e da chi meglio ambiva. Nei quaderni del 30 giugno e del 15 luglio dello Spettatore era stato pubblicato il suo Saggio di traduzione dell' Odissea; ed egli, in un breve proemio, era uscito in questa audace quanto ingenua dichiarazione:

M'inginocchio innanzi a tutti i letterati d'Italia per supplicarli a comunicarmi il loro parere sopra questo Saggio, pubblicamente o privatamente, come piacerà loro, quando non mi credano affatto indegno delle loro ammonizioni. Deh! possano essi parlarmi schiettamente, e risparmiarmi una fatica inutile, se questo Saggio non può esser lodato con sincerità.

Oh si che i letterati d'Italia avean tempo e voglia di badare a uno sconosciuto, supplicante in ginocchio! Solo un

LE TRADUZIONI DALL' « ODISSEA »

E DALL' « ENEIDE » 47

anonimo, in un successivo quaderno della stessa Rivista, si degnò di fare una scortese e sgarbata allusione a quella curiosa prefazione e a quella versione alquanto lambiccata '. Il giovanetto rimase, e si capisce, ugualmente scontento e del silenzio dei pezzi grossi e dell'accenno del botolo appiattato. E per costringere i primi a dargli retta, e anche pel gusto di dare una ceffatina al secondo, pregò lo Stella di stampargli in un opuscolo a parte un altro diverso saggio di traduzione, quello del libro secondo dell'Eneide. Nell'epistola al lettore, molto compassata ed affettata nello stile e nella lingua, che l'anno dopo ebbe a ripudiare come << stentatissima», dichiarava, tra lo sconforto e la rassegnazione, a proposito del primo saggio:

....E mal grado del mio inginocchiarmi innanzi ai letterati, e dell'usare a bello studio maniere un po' stravaganti, a pregarli che lor piacesse dirmi se utile o inutil cosa farei mandando l'opera innanzi, non altro ho potuto saperne, se non che quello inginocchiarmi è paruto strano (ed io avea voluto che il fosse)... ; e converrà, se pur dilibererò di tradur l'Odissea, che ne giudichi per me, e corra il rischio che avrei voluto cansare di gittar la fatica.

Ma a buon conto, dell'« opericciuola» fece pervenire un esemplare al Mai, uno al Monti e un terzo al Giordani, scrivendo a ciascuno di essi una letterina di presentazione, nello stesso giorno, 21 febbraio 1817. Al Mai diceva:

Non presumo che la legga, chè sarebbe dargliela ad usura, ma solo che la serbi a memoria non affatto sgradita del suo devotissimo obbedientissimo servitore.

E al Monti:

Non La prego che legga il mio libro, ma che non lo rifiuti; ed, accettandolo, mi faccia chiaro che Ella non si tiene offeso del mio ardimento, con che verrà a cavarmi di grande ansietà.

1 In un articolo che concerneva << un poema epico di argomento moderno». Essendo contrassegnato con le iniziali F. C., il Leopardi lo suppose scritto dal conte Francesco Cassi suo cugino: ma dovette ricredersi. Vedi lettere del 18 aprile e del 5 maggio 1817.

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