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Che cosa è in Recanati di bello? che l'uomo si curi di vedere o d'imparare? niente. Ora Iddio ha fatto tanto bello questo nostro mondo, tante cose belle ci hanno fatto gli uomini, tanti uomini ci sono, che chi non è insensato arde di vedere e di conoscere; la terra è piena di meraviglie; ed io di dieciott'anni potrò dire: In questa caverna vivrò, e morrò dove son nato? Le pare che questi desiderii si possano frenare che siano ingiusti, soverchi, sterminati? che sia pazzia il non contentarsi di non veder nulla, il non contentarsi di Recanati? L'aria di questa città L'è stato mal detto che sia salubre. È mutabilissima, umida, salmastra, crudele ai nervi e per la sua sottigliezza niente buona a certe complessioni. A tutto questo aggiunga l'ostinata, nera, orrenda, barbara malinconia che mi lima e mi divora, e collo studio s'alimenta e senza studio s'accresce. So ben io qual è, e l'ho provata, ma ora non la provo più, quella dolce malinconia che partorisce le belle cose, più dolce dell'allegria; la quale, se m'è permesso di dir così, è come il crepuscolo, dove questa è notte fittissima e orribile, è veleno, com'Ella dice, che distrugge le forze del corpo e dello spirito. Ora come andarne libero non facendo altro che pensare, e vivendo di pensieri senza una distrazione al mondo? E come fare che cessi l'effetto se dura la causa? Che parla Ella di divertimenti? Unico divertimento in Recanati è lo studio; unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il resto è noia. So che la noia può farmi manco male che la fatica, e però spesso mi piglio noia, ma questa mi cresce, com'è naturale, la malinconia; e quand'io ho avuto la disgrazia di conversare con questa gente, che succede di raro, torno pieno di tristissimi pensieri agli studi miei, o mi vo covando in mente e ruminando quella nerissima materia.

Pur di codesti « tristissimi pensieri » è rimasta un'eco in quel canto delle Ricordanze, ch'è la più alta espressione lirica di rimpianto pel caro tempo giovanil», miseramente perduto << senza un diletto, inutilmente», nel soggiorno disumano della terra natale, « intra gli affanni», da tutti « abbandonato e a tutti occulto », << senz' amor, senza vita».

E già nel primo giovanil tumulto
Di contenti, d'angosce e di desio,
Morte chiamai più volte, e lungamente
Mi sedetti colà su la fontana

Pensoso di cessar dentro quell'acque
La speme e il dolor mio.

In lingua povera, egli aveva vagheggiato il suicidio. Lo spiattellerà alcuni mesi più tardi al fratello Carlo, in quella angosciosa lettera di congedo che aveva preparata per lui, quando tentò la fuga dal carcere domestico. Allora dirà:

Ora che la legge mi fa padrone di me stesso, non ho voluto più differire quello ch'era indispensabile secondo i nostri principii. Due cagioni m'hanno determinato immediatamente, la noia orribile 1 derivata dall'impossibilità dello studio, sola occupazione che mi potesse trattenere in questo paese; ed un altro motivo che non voglio esprimere, ma tu potrai facilmente indovinare. E questo secondo, che per le mie qualità sì mentali come fisiche, era capace di condurmi alle ultime disperazioni, e mi facea compiacere sovranamente nell'idea del suicidio, pensa tu se non dovea potermi portare ad abbandonarmi a occhi chiusi nelle mani della fortuna.

Anche senza essere a parte delle confidenze fraterne, si può forse indovinare quali fossero quei motivi. O non l' ha detto egli medesimo, il poeta, nell'Amore e Morte, che «fin la donzella timidetta e schiva», se è agitata dalle furie d'amore,

«

Osa alla tomba, alle funeree bende

Fermar lo sguardo di costanza pieno,
Osa ferro e veleno
Meditar lungamente,

E nell'indotta mente

La gentilezza del morir comprende ?

Quando il gran travaglio interno» giunge al punto « che sostener nol può forza mortale »,

O cede il corpo frale

Ai terribili moti...;

O così sprona Amor là nel profondo,
Che da sè stessi il villanello ignaro,

La tenera donzella

Con la man violenta

Pongon le membra giovanili in terra.

1 Nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo genio familiare, il Leopardi dice della noia che «anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto». Ne riparla nel Pensiero LXVII, dove definisce : << Poco propriamente si dice che la noia è mal comune. Comune è l'essere disoccupato, o sfaccendato per dir meglio; non annoiato. La noia non è se non di quelli in cui lo spirito è qualche cosa. Più può lo spirito in alcuno, più la noia è frequente, penosa e terribile... ». E nel Pensiero seguente ripiglia: «La noia è in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani... »; patirla, «pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana ». --- Circa Il sentimento della noia nel Leopardi, e quel tanto ch'ei desunse per codesto soggetto dal Pascal (Misère de l'homme), è da vedere M. LOSACCO negli Atti dell'Accademia di Torino », 30 giugno 1895.

Or su quella povera anima, così bisognosa d'amore e così deserta, eran di recente passate le bufere della passione, tanto più violenta quanto più nascosta e ignorata, per la donna del Primo amore, e quelle della disperazione per la lenta e inesorabile morte della fanciulla lieta e pensosa», K ch'egli poi pianse e immortalò col nome di Silvia. La Teresa Fattorini era morta nel settembre del 1818; e la lettera a Carlo è del luglio 1819.

Al padre, che s'intende, non fece cenno nè di codesto motivo nè del suicidio; ma ben gli ricordò le micidiali malinconie e le terribili noie, dalle quali s'era sentito sospinto verso estreme risoluzioni.

Ella conosceva ancora la miserabilissima vita ch'io menava per le orribili malinconie, ed i tormenti di nuovo genere che mi procurava la mia strana immaginazione, e non poteva ignorare quello ch'era più ch'evidente, cioè che a questo, ed alla mia salute che ne soffriva visibilmente, e ne sofferse sino da quando mi si formò questa misera complessione, non v'era assolutamente altro rimedio che distrazioni potenti, e tutto quello che in Recanati non si poteva mai ritrovare. Con tutto ciò Ella lasciava per tanti anni un uomo del mio carattere, o a consumarsi affatto in istudi micidiali, o a seppellirsi nella più terribile noia, e per conseguenza, malinconia, derivata dalla necessaria solitudine, e dalla vita affatto disoccupata, come massimamente negli ultimi mesi.

Dei tragici propositi di quei giorni inenarrabili egli lasciò vivo e immediato ricordo nel suo Zibaldone (vol. I, p. 193), donde appunto lo esumò quando, nel 1829, cantò le sue Ricordanze.

Io ero oltremodo annoiato della vita, sull'orlo della vasca del mio giardino, e guardando l'acqua e curvandomici sopra con un certo fremito pensava: S'io mi gittassi qui dentro, immediatamente venuto a galla mi arrampicherei sopra quest'orlo, e sforzatomi d'uscir fuori, dopo aver temuto assai di perdere questa vita, ritornato illeso, proverei qualche istante di contento per essermi salvato e di affetto a questa vita, che ora tanto disprezzo e che allora mi parrebbe più pregevole.

Ed è probabile che anche lì, sull'orlo della vasca tentatrice, ei ripensasse a Saffo e ne immaginasse il suo Ultimo canto, dacchè, nella stessa nota dello Zibaldone, ripiglia:

La tradizione intorno al salto di Leucade poteva avere per fondamento un'osservazione simile a questa.

IX.

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Il miraggio del mondo di là dall'Appennino. La visita del Giordani a Recanati.

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Nel suo primo giovanile errore » (ed errore proprio nel senso provenzalesco, di quel travaglio interno di cui è cagione l'amore 1), quando «< era in parte altr'uom da quel che gli anni e l'esperienza lo avevan fatto, anche il Giordani aveva, non che pensato, tentato di porre « le membra giovanili in terra ». A una sua amica scriveva, sette anni dopo quella tragica notte in cui aveva trangugiato il veleno: Se perdessi la speranza di vivere studiando, « abborrirei la vita; una volta ho tentato distruggerla per disperazione d'amore ». Ma non per questo solo. Non compreso nè amato in casa, la madre, << con la sua disgustosissima serietà », lo aveva mortalmente ferito con uno sconcio paragone 2; e alla nuova umiliazione, nello sconforto d'amore, il giovane sensitivo non aveva voluto sopravvivere. È facile immaginare ciò che ora egli provasse nell'assister da lontano allo strazio e al rodimento di quell'altra anima in pena.

Non conoscendo a fondo le singolari condizioni di quella casa patrizia marchigiana, annidata e rannicchiata su quel remoto colle dell'Appennino, il Giordani, quasi che quel povero contino, sprovvisto di salute e di quattrini, potesse esser confuso con un conte Alfieri di spendereccia memoria,

1 Cfr. il mio commento al Canzoniere di F. Petrarca; Milano, Hoepli, 1907, p. 3.

2 In una lettera al Leopardi, del 9 settembre 1817, il Giordani scriveva, con meno acredine ma non meno annoiato: « Mi diverto ad esercitare pazienza colla mia buona madre, che è la più sublime e la più incomoda santa della terra: mi diverte il potermi vantare di sopportare una santità che impazientirebbe gli apostoli e i profeti ». Il cavalleresco Giacomo, rispondendogli, non fiatò di quell'altra santa, che esercitava invece, e come!, la pazienza sua.

lo aveva esortato a distrarsi dallo studio dei libri con un po' di studio del mondo. C'eran tante belle cose da vedere e tanti valentuomini da conoscere; e non a tutto poteva bastare una biblioteca di provincia! Come se quell' infelicissimo recluso non sentisse, anche troppo, le smanie di veder terra e cielo che non fossero recanatesi! Quando s'accorse d'aver messo acido sulla piaga, il maldestro chirurgo cercò di rimediare con qualche palliativo; ma non riuscì che a insospettire l'ammalato. Il quale, descrittogli lo stato miserando del suo animo nella « tana » paterna, ripiglia (30 aprile 1817):

Non m'è possibile rimediare a questo, nè fare che la mia salute debolissima non si rovini, senza uscire di un luogo che ha dato origine al male, e lo fomenta e l'accresce ogni dì più, e a chi pensa non concede nessun ricreamento. Veggo ben io che per poter continuare gli studi bisogna interromperli tratto tratto, e darsi un poco a quelle cose che chiamano mondane: ma per far questo io voglio un mondo che m'alletti e mi sorrida, un mondo che splenda (sia pure di luce falsa), ed abbia tanta forza da farmi dimenticare per qualche momento quello che soprattutto mi sta a cuore; non un mondo che mi faccia dare indietro a prima giunta, e mi sconvolga lo stomaco e mi muova la rabbia e m'attristi e mi forzi di ricorrere, per consolarmi, a quello da cui volea fuggire. Ma già Ella sa benissimo ch'io ho ragione, e me lo mostra la Sua seconda lettera, nella quale di proprio moto mi esortava a fare un giro per l'Italia, benchè poi (e so ben io perchè) con lodevolissima intenzione, della quale Le sono sinceramente grato, abbia voluto parlarmi in altra guisa. Laonde ho cianciato tanto per mostrarle che io ho per certissimo quello che Ella ha per certissimo.

Il buon piacentino torna da capo a consigliare « gli esercizi corporali », dai quali Giacomo « acquisterebbe vigore allo stomaco, alacrità alla testa, robustezza alle membra, serenità all'animo ». E insiste (20 maggio):

Non so se a Lei piaccia il ballo; che pure sta bene a un cavaliere: non so se Ella non siasi già tanto indebolito che non possa sopportare la scherma: ma il cavalcare, il nuotare, il passeggiare, La prego che non Le rincrescano: e se io fossi di qualche autorità presso Lei, gliele vorrei comandare. Io sono intendentissimo di malinconie; e n'ebbi tanta nella puerizia e nell'adolescenza, che credetti doverne impazzire o rimanere stupido. La mia complessione fu debolissima; nacqui moribondo, e sin dopo i vent'anni non potei mai promettermi due settimane di vita. E se ora ho comportabile sanità (non vigore), lo debbo all'aver fatto esercizio. Però Le raccomando fervidamente che non voglia mancare a sè stesso.

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