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accidente in sostanzia*; ed aggiunge che quando asserisce averlo veduto venire, averlo udito parlare, aver fissato gli occhi negli occhi di lui, ecc. ei si vale di figure rettoriche di cui aveva in se un ragionamento interno; ne fa intendere che così faceva anche il suo amico Guido Cavalcanti, ma che entrambi sapean denudare le loro finzioni da cotal vesta sì che avesser verace intendimento. Senza ch' ei cel dicesse, già sapevamo che Amore è una figura, e non una realità. Esso è dunque, per esplicita confessione, un accidente nella sostanzia di Dante, un suo modo di sentire, Dante stesso in somma. Nè ciò è tutto. Amore ha in mano un Cuore, e dice al poeta “Vide Cor tuum ;” e il poeta stesso canta ch' "Amore e gentil Cor sono una cosa;" ed eccoti Amore non esser altro che il cuor di Dante.

Riguardo poi a Beatrice la cosa è più chiara, poichè con più maniere il poeta l'identifica con sè stesso. Eccone una. Amore, che le diè a mangiare un tal Cuore, dice che quella donna somiglia sì bene a lui stesso, che non si chiama diversamente da lui: "E quella ha nome Amor, sì mi somiglia... Chi volesse considerare sottilmente quella Beatrice, chiamerebbela Amore, per molta somiglianza che ha meco." (pp. 40 e 41.) Or sì che la cosa si riduce al cognitissimo assioma, Quæ conveniunt uni tertiò conveniunt inter se : Dante non è diverso da Amore, e Amore non è diverso da Beatrice: dunque Dante e Beatrice son la stessa persona. E perciò scrive che non può lodar lei senza lodar sè stesso; perciò dichiara che quella è la donna della sua mente, la qual (mente) fu da molti chiamata Beatrice; perciò dice che la sua mente donnea con la sua donna:

La mente innamorata che donnea

Con la mia donna, sempre di ridurre

Ad essa gli occhi più che mai ardea †; (Parad. xxvii.)

* "Io dico d'Amore come se fosse una persona, e non solamente sostanzia intelligente, ma siccome fosse sostanzia corporale; la qual cosa, secondo la verità, è falsa; chè Amore non è per sè siccome sostanzia, ma è uno accidente in sostanzia." (Vita Nuova, p. 42.)

Ed aggiunge subito dopo di quegli occhi e quella mente,

"Che se natura od arte fè pasture

Da pigliar occhi per aver la mente,"

eran nulle in faccia a quelle che egli vedeva in lei. Ora si capisce qual era

perciò canta che "la grazia donnea con la sua mente" (Parad. xxiv.); e che avanti ch' egli sdonnei vuol contare la sua ragione (V. N.); e ch' egli nel guardarsi entro la mente trova ch' ella è la donna sua; ed altre molte espressioni simili, di cui seminò le sue rime e le sue prose.

Così Dante pose fuori di sè Amore e Beatrice, e poi fè rientrarli ambo in sè stesso; così dopo essersi in que' due diviso si riunì in uno. Leggesi nella Stella Fiammeggiante, che tutta l'operazione dell'Alchimia e della Massoneria consiste nel fare due di uno, ed uno di due, con unire ciò che figuratamente è detto il maschio vivo e la femmina viva *. E questa è appunto quella che risultò dalla Fontana degli Amanti (p. 395.); questa è pur quella che Dante indica.

In più acconcio luogo diverrà manifestissimo che il fratello della sua donna mente, e il padre della sua donna mente, de' quali parla ancora nella Vita Nuova, son sempre egli stesso. Ognun per sè vede che il padre e il fratello della mente non possono essere che enti di ragione variamente considerati.

Ci protestiamo non aver dato della Vita Nuova che un imperfettissimo schizzo, e sol quanto basti a far ravvisare, o dubitare almeno, che quel grande enigma chiude il gran segreto della Divina Commedia ; il bandolo del complicato nodo lo porremo in vista a maggiore maturità di materia, e vedremo allora che Dante medesimo svolgerà con vari ordigni tutto il suo studiatissimo inviluppo. Ora gioverà ricercare da chi gli derivò l'arte di così intrecciarlo; e nel rimontare alla remota origine di sì impercettibile industria, daremo al capitolo che ne tratta un titolo analogo a quello dell'opera intera.

l'alto segreto noto ai soli fedeli d'Amore in simil grado. Non essendo la donna se non Dante stesso, è chiaro che questi, nel mirar quella, vedeva in lei gli occhi suoi proprj; e perciò li vedea fuori degl' istrumenti loro. Onde o che l'uno guardasse l'altra, o l'altra l'uno, il caso medesimo si verificava. Questo si ch'è un arzigogolo coi fiocchi!

"Cette combinaison se reduit à faire d'un deux, et de deux un, et rien de plus." (Etoile Flamb., tome ii. p. 154.)

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CAPITOLO SESTO.

DELL'AMOR PLATONICO.

SE "ogni erba si conosce per lo seme," come Dante cantò, ricerchiamo l'oscuro seme di quest' erba sconosciuta, ed ei ci dirà qual ella sia veramente. Ma a qual terreno volgerem noi i nostri passi?

Dimostrammo ben a lungo che mistica pianta di Persia si è questa, e che di là ne fu recata in Europa la fruttifera semente, la quale, sparsa da abili mani, mise da per tutto profonde radici, ed all'ombra crebbe, all'ombra moltiplicò. Là dove indigena nacque, e non dove esotica allignò, può ella mostrarci tutto il suo rigoglio natio. Dirigiamoci perciò a quella lontana terra, in cai il correr degli anni non potè del tutto alterare la sua indole primitiva. E per non ismarrirci in sì remota ricerca, cotal guida scerremo che pienissimo dritto reclami alla nostra fiducia ed a quella di chi vorrà seguirci.

Il dotto e reputato Sir William Jones, che ne' suoi varj viaggi per le regioni dell'Asia, e pe' molti studj che in essi intraprese, delle lingue orientali espertissimo conoscitore divenne, e della filosofia e teologia di que' paesi scrutinatore perspicace si dimostrò, parlando de' Persiani così si esprime *: "La primitiva religione di Iran, se vogliam credere all' autorità allegata da Mohsani Fani, era quella che Newton chiama la religione più antica, e che noi a giusto titolo potrem dire la più nobile: Ferma credenza che un solo Dio supremo col suo potere creò il mondo, e con la sua provvidenza continuamente il conserva; amore e adorazione a lui solo, riverenza ai genitori ed ai vecchi, fraterna affezione a tutto il genere umano, compassione anche ai bruti." E' questo il culto che la pura ragione produsse senza l'aiuto della sublime rivelazione, la quale discese

* Veggasi de' Discorsi letti nella Società Asiatica, il Discorso VI., pronunziato ivi nel 19 di Febbrajo del 1789: ediz. di Londra, 1824.

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