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insieme ed idea, fiorentina e paradisiaca creatura, femminea bellezza e virtù, a cui l'arte e l'amore di Dante commise di rappresentare il riso stesso di Dio, che tremola in baleni di scienza agl'intelletti.

Ch'io però debba aprire col mio discorso questa solennità geniale, non saprei dire se più mi dia sgomento o letizia. Veramente provo una certa sicurtà confidente, una baldanza onesta, un gaudio riposato, nel trovarmi fra tante utili e leggiadre opere delle più colte e valenti mie consorelle. Ma sento anche più fortemente quanto sia arduo e pauroso l'onore che mi venne fatto, affidandomi l'argomento di Beatrice. L'immagine della mirabil donna volle il suo Poeta deliberatamente consegnare ai posteri delineata con mano leggera tanto, che di lei può dirsi, come di Piccarda nello specchio della luna, le postille del suo viso esser deboli sì, che perla in bianca fronte non vien men tosto alle nostre pupille. Eppure molto fu pensato e scritto su Beatrice; nè so se possa esser rimasta a me una sola parola d'aggiungere. La cercherò nel cuor mio, questa parola, più che nella mente: e sarà semplice, non profonda; più d'amore che di curiosità; più di contemplazione che di erudizione. Vorrei, se mi fosse dato, abbracciar tutta colla pupilla dell' anima l'evaniente figura di quella donna dugentista, che gioisce di due immortalità, l' una per dono di Dio, l'altra per dono d'amore. Vorrei pormela innanzi, un poco a distanza, ma non troppo; perchè all' interezza della visione giova una lontananza discreta, e alle particolari grazie delle forme giova la vicinanza. Vorrei non solo idoleggiarla nel tempo che fu suo, ma distinguerla dalle altre idealità femminee, che la precedettero e la seguirono nei canti d'amore. Far come chi s'è innamorato d'una stella, che la guarda sempre, finchè si nasconde nella crescente chiarezza del giorno. E anche quando s'è celata, seguita a guardare in alto, pensando quello è il luogo della mia stella.

In terre latine prese l'amore sembianze varie, col variare dei tempi. I Romani, signori del mondo, conobbero la madre, superba dei figli più che dei gioielli, la sposa che ispira al marito il terribile coraggio del suicidio, le matrone casalinghe, filatrici di lana, frugali. Anche Orazio onorò d'una fulgida strofa la rusticana gioventù soldatesca, assuefatta a romper glebe colle zappe sabine, e a portar legna dal bosco, al comando della madre severa. Ma veramente non furono amate mai quelle donne. Esse passarono, come tipi d'epica gravità, nelle storie e nei poemi. Alla maternità loro rimase il pianto, l'eroismo e la tenerezza. L'elegie e le odi carezzarono piuttosto le cortigiane, esperte nell'arte del canto, della lira, dei baci, delle joniche danze, e dei nodi laceni alle chiome. La giovinetta vereconda e pensosa, ricca d'affetti e di lacrime, ch'eleva col sorriso l'amante, che sostiene, educa e conforta, non fu conosciuta. Ed amore non ebbe veli. Nella sua greca nudità soddisfatto e potente, non chiese alla donna e non diede all'arte, se non tutto ciò ch'è giovanilmente sereno, florido, opulento, e fra la grazia e la forza proporzionato ed intero. Ma nessuna divina facella ardeva nell' orientale alabastro delle vite femminee. Romane vergini erano le Vestali. Altere e caste per debito sacerdotale, crudeli che, pollice verso, comandavano l'elegante morire ai gladiatori del circo; forse perchè, vittime esse stesse d'una verginità involontaria, si confortavano vendicative nell' aspetto d'altre vittime sociali. E nondimeno in quelle non amate, ma temute e venerate fanciulle, si raccoglieva la fede nel fuoco eterno e nei fati romani. Orazio s'augurava una gloria che durasse dum Capitolium scandet cum tacita virgine Pontifex.

La tacita vergine cessò presto d'ascendere al Campidoglio. Dalle catacombe salirono invece al sole di Roma altre vergini, consapevoli del martirio, della verecondia, della pietà, del perdono. La Germania più tardi, irrompendo in barbariche

orde a dissolvere gli ordinamenti romani nell'Italia, nell' Iberia, nelle Gallie, recò ai popoli meridionali un elemento nuovo, la riverenza alla donna; elemento che per simpatia spontanea s'unì temperatamente e si migliorò col cristianesimo vittorioso. Riferisce Tacito che i Germani credevano esser nelle donne qualche cosa di divino e di provvidenziale. Profetesse e guerriere, le teutoniche consigliavano e combattevano, e sapevano morire coi mariti e coi figli per la libertà. Ma dai nordici canti dell' Edda alle leggende dei Nibelungi, comincia ad aleggiare un più mite spirito, per cui l'antico tipo virile e bellicoso delle cerulee Germane si trasmutò nel dolce, casalingo e dignitoso carattere delle moderne tedesche. Allora la mulier diventò domina in tutte le lingue dell'occidente. E per l'alleanza della fede col valore, cominciarono quelle romanzesche avventure di prodi e di credenti, di crociati e d'amanti, che già Dante rimpiangeva a' suoi tempi, come una luce tramontata di lealtà, di coraggio, di gloriose fatiche, di ricche e, più che ricche, munifiche costumanze. Lo espresse in un verso, che diede più tardi l'intonazione ad un altro poema:

Le donne, i cavalier, gli affanni e gli agi,

Che ne 'nvogliava amore e cortesia.

Dalle imprese cavalleresche, dai racconti d'armi e d'amori, alla musica e al canto è un passo breve. L'Italia taceva esausta ed ischeletrita, o balbettava ascetica nelle cronache mona. cali, tra la lingua del Lazio che finiva e i dialetti che iniziavano un' altra lingua. Aure di canti e d'amore le giunsero dalle aranciere della Provenza, dove le reminiscenze greche e romane s'erano congiunte alle vigorose idealità germaniche. La poesia amorosa de' trovatori non venne dal popolo, ma discese al popolo signorilmente contegnosa e uniforme, più di spirito che di sentimento, gaia, cesellata, elegante, nata sul liuto, Baroni e conti, con cavalieri e paggi d'umile origine, i

quali però sotto le armi avevano imparato il fino amore, diventarono veri pellegrini dell'arte. Tuttavia l'omaggio trovadorico non ricercava il cuore della fanciulla o della donna ; circondava la dama, come l'incenso una dea. E nulla toglieva che la dama fosse moglie altrui. Il bacio spirituale del poeta poteva sfiorare la sua fronte, senza farla arrossire; tanto erano simili tra loro quegli amori e quei canti, tanto erano altere quelle dame, tanto era straniero ai sensi quel culto.

La scintilla provenzale, trascorrente per la Penisola, s' accendeva qua e là dove trovasse migliori disposizioni alla fiamma. Nel Monferrato, nella Lunigiana, a Ferrara, a Bologna, cominciarono a modularsi canzoni e sirventesi in lingua occitanica da trovatori italiani. Nè possiamo diminuire l'importanza di quel movimento primitivo, mentre lo stesso Dante, che riprese ne' suoi contemporanei il difetto di sentimento vero, riconobbe in Arnaldo Daniello il miglior fabbro del parlar materno, che in versi d'amore e prose di romanzi soverchiò tutti.

Nella Sicilia, isola ricca e beata, tra le fantastiche vicende e grandezze delle corti de' Normanni e degli Svevi, dove l'arte moresca ricamava il marmo, e disponeva portici e fontane, tra cui la tradizione ellenica s'addormiva in ozj soporiferi e profumati, in due forme di poesia amorosa si cominciò a tentare il verso dialettale del paese. Ardimento gentile, perchè meglio si onora la patria e si canta d'amore nell' idioma proprio che nell' altrui. La forma aulica s'attenne peggiorando alle consuete maniere cavalleresche, e cercò vanamente innestarsi sull'albero secco provenzale, che veniva sempre più torcendosi e accartocciandosi negli ultimi fogliami. La forma popolare, in dispute, contrasti e pastorelle, fu quasi sempre fieramente realista, come i lampi di sensualità che fuggivano dagli occhi grecoarabi di quelle brune isolane.

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Ma ecco il tempo che il giovine popolo italiano, avendo già chiuso co' suoi padri latini un grande periodo di storia, sente ch'è vicino a riaprirne un altro. Cammina sulle rovine de' monumenti caduti, anelando a porsi sul limitare dell'avvenire che sarà suo; e sdegnoso d'imitazioni, scruta nella coscienza propria qualche novità che lo faccia degno de'suoi destini. E cominciava la poesia d'amore nel volgare toscano. Dopo i primi rudimenti d'arte nazionale in Guittone e nel Guinicelli, si formava la bella scuola de' tre spiritualisti poeti, de'tre Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e l'Alighieri. Nel dolce stil novo la donna assumeva quasi sempre qualità di cielo. L'amore, spennato, del vecchio paganesimo, e assiderato nelle forme di Provenza, rientrava ne'canti, con ventilare d'angeliche ali. La vaga e indeterminata idealità femminea de' trovatori diventò luce intorno alla fronte e all'anima di donna vera. Lo studio della vita, un caro nome di persona appartenente al popolo, lo stesso ordinamento politico delle genti toscane in Comune, ch'escludeva da un lato gli omaggi timidi del vassallaggio, e dall'altro le inaccessibili alterigie delle dame nelle corti e nei manieri, una cura nuova di esprimere il sentimento proprio a dettatura d'amore, furono le cagioni e gl' intenti del dolce stile. Però tutto questo non impedì che l'amore ritenesse dai Provenzali, ed accrescesse anche, per consuetudine e genialità di studj, una particolare tendenza al raziocinio speculativo; e si mantenesse le più volte tanto casto e riservato, che noi possiamo pensare a Madonna Bice, sposa del cavaliere de' Bardi e amata dall'Alighieri, senza sentire un urto tra il cuore e la

mente.

Dalla Dorada di Tolosa venne la Mandetta; e per Firenze s'incontrava, nelle comitive di maggio e nella sirventese di Dante, Giovanna Primavera. Furono esse le angelicate del Cavalcanti, nè forse le sole. Ma non hanno neppure la piccola storia di Beatrice. Da qualche lieve particolarità e da alcune

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