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che fu nella corte di questo splendido monarca innalzata a stato gentile e sottratta alle pastoje della vile consuetudine.

CAPO II.

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Varie opinioni intorno all'origine della lingua italiana. Essa nasce dal romano rustico 0 dalla lingua romanza. Diviene illustre nella corte di Federico II e fra i Siciliani. Poesie e coltura di questo principe, e de' suoi figliuoli Enzo e Manfredi. - Pier delle Vigne suo segretario. Testimonianza di Dante a favore di Federico e dei Siciliani.

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Que' chiari ingegni che indagarono la origine della vaga nostra favella si divisero in due schiere, e sostennero due diverse sentenze. Leonardo Bruni, seguíto poi da Celso Cittadini, dal Gravina, dal Quadrio e da altri, sostenne essere la lingua italiana antica al pari della latina, e che amendue al tempo medesimo fossero usate in Roma; la prima dal rozzo popolo e ne' famigliari ragionamenti, la seconda dai dotti scrivendo e parlando nelle pubbliche assemblee. E lo confermò coll'esempio dei comici latini, che facendo parlare i plebei ne imitarono la favella, ed usarono di molte parole che si sono poi fatte dell'italico idioma, e che non si udivano sulle labbra dei dotti e dei magistrati romani. Aggiunse che siccome infra noi studiano i giovani la colta favella, così i Romani erano ammaestrati non solo nella

lingua greca, ma anco nelle eleganze della

latina (1). Il Maffei aggiunse ❝che la trasformazione della lingua latina nella volgare provenne dall' abbandonar del tutto nel favellare la latina nobile, grammaticale e corretta, e dal porre in uso generalmente la plebea scorretta e mal pronunciata. Quinci quasi ogni parola alterandosi, e diversi modi prendendo, nuova lingua venne in progresso di tempo a formarsi. Nè si creda che da' barbari recata fosse così fatta scorrezione e falsa pronuncia, sì perchè del tutto opposto se ne sarebbe per essi indotto il cambiamento, e sì perchè molto prima de' barbari era già tutto questo in Ita(2).

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Il Muratori, lo Zeno, il Fontanini e molti altri sono d'avviso che la lingua italiana si sia formata dal corrompimento della latina, e dalla mischianza di molte voci e di molti modi che si tolsero dagli idiomi de' barbari che si erano stabiliti nella Italia. Il latino già corrotto da molti secoli e da diverse cause, giusta la sentenza del Muratori, non cessò di essere la lingua comune dopo le invasioni dei popoli settentrionali: i vincitori, che sono sempre in minor numero dei vinti, impararono la lingua del paese in cui si erano stabiliti, come quella che era più dolce della loro, e necessaria alle bisogne della vita; ma la pronunciavano male, e la imbastardivano colle loro barbare parole ed espressioni. Vi introdussero gli articoli,

(1) Tiraboschi, tom. III, prefaz.

(2) Maffei, Verona Illustr. lib. XI, par. 1.

sostituirono le preposizioni alle desinenze variațe delle declinazioni, ed i verbi ausiliarj a quelle delle conjugazioni. Terminarono alla latina un gran numero di vocaboli celtici, franchi, germani e lombardi, e spesso diedero ai latini le terminazioni di queste lingue. Gli abitatori della Italia non seguendo più nè l'autorità degli scrittori, nè l'uso signore degli idiomi, abbracciarono un siffatto corrompimento, e trascinati da una prepotente e lunga consuetudine non credettero di aver cangiato linguaggio, mentre le forme ed anco le costruzioni dell'antico erano mutate; ed appellarono sempre latina una lingua che non lo era più. I notai però costretti a compilare in latino i loro atti, lordavano le carte di un laido stile, con cui talvolta coprivano ai popoli la loro ignoranza. E qui il paziente archeologo vien citando moltissime parole che si usarono non solo nell'undecimo e duodecimo secolo, ma anco negli anteriori, le quali non sono altrimenti latine, ma rimasero poscia all'italiana favella (1).

In mezzo a tanta discrepanza di opinioni che faremo noi per sceverare il vero dal falso? Entreremo forse nella schiera di chi crede la italiana favella antica al par della latina, 0 seguiremo gli altri che la vogliono formata dal corrompimento di questa, e dall'introduzione delle voci barbare de' popoli che sovra i carri colle mogli e co' figli passarono l'Alpe e recarono la scarmigliata lor grammatica nel nostro

(1) Muratori, Antiq. Ital. dissert. 32.

bel paese? Ne agli uni ne agli altri si vuol prestar fede all'intutto, ma scegliere il vero dalle varie loro sentenze e renderle concordi, mentre a prima giunta sembrano contrarie. E noi tenteremo di far ciò calcando le orme di un moderno filologo, del conte Perticari, di cui per grave danno delle lettere fumano ancora le ceneri. Ma per chiarire questa materia è necessario che col pensiero ci trasportiamo ai tempi in cui i Romani dettavano leggi dal Tarpeo al soggiogato universo.

Questi vincitori del mondo bramosi d'imperare alle genti non solo, ma anco di sottoporli alle foggie, alle voci ed alle condizioni di Roma, imposero ad esse non solamente il giogo, ma anco l'obbligo di parlare la loro lingua (1), ordinando che col solo latino si rendesse ragione ai vinti, si pubblicassero le risposte de' principi, gli editti de' proconsoli e de' pretori. "I Padri nostri, dice Plinio, congregavano gli sparsi imperj, e ne mitigavano le costumanze, e tante discordi e fiere lingue di popoli univano al laccio d'una sola favella, a fine che l'uomo conoscesse la umanità, e la divisa famiglia delle genti avesse una sola patria (2)". Mentre così ampiamente si era diffuso infra i popoli il linguaggio latino, si tolse da Roma la corte, che venne trasportata in Costantinopoli, e fu pure tolto ad essa il dire cortigiano ed illustre, e solo le rimase il dialetto

(1) S. Agostino, De Civit. Dei, lib. XIX, cap. 7. (2) Pliuio, lib. III, cap. 5.

de' rustici e della plebe, che fu anch'esso bentosto mutato dalle incursioni de' nemici. Imperocchè le italiche terre, occupate prima dagli Eruli e dai Turingi sotto Odoacre, poi dagli Ostrogoti sotto di Teodorico, caddero per dugent'anni nel fondo della barbarie sotto gli Unni ed i Longobardi, i quali, al dir del Magno Gregorio, mieterono l'umana generazione come biada spessa, posero a sacco le città, arsero i templi, atterrarono le castella, e tutta questa contrada de' suoi abitatori nuda rimase un deserto. Ma della vinta Italia avvenne ciò che Orazio dice della debellata Grecia: la terra vinta domò il fiero suo vincitore. Nondimeno molte voci barbare sozzarono il latino; "per cui, dice il Perticari (1), è da fare una considerazione assai bella, e forse nuova; cioè che leggendo le scritture di quell'età, veggiamo che le parole pertinenti al vivere sono per lo più dei Latini, e quelle pertinenti ai magistrati e alla guerra per lo più sono dei barbari. Perchè quella corruzione era governata da queste due necessità; che il vinto cioè imparasse quelle voci che gli dettava la forza, e il vincitore quelle che dettava il bisogno. Laonde il Goto, che voleva il pane, e udiva dire da' plebei latini da mihi illum panem, cercava imitarli per essere inteso, e dicea da... mi... il... pane; le quali parole essendo latine erano solamente mozze secondo le native profferenze di que' selvatichi. Ed al contrario i nostri

(1) Della Difesa di Dante, cap. 8.

per la

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