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la state o l'autunno in Pavia con Galeazzo, e l'inverno e la primavera in Padova col principe Carrarese. La peste che nel 1362 afflisse di nuovo la Italia, lo costrinse a ritirarsi in Venezia, ove si trasferì più volte da Padova, ed ove fu singolarmente onorato dal doge Lorenzo Celso, che lo volle pubblicamente assiso alla sua destra in occasione delle solenni feste che si celebrarono in Venezia nel 1364, e dopo le vittorie riportate in Candia da Luchino del Verme, che pei conforti del Petrarca aveva acconsentito a divenir capitano delle truppe della Repubblica. Intanto i Fiorentini bramosi di onorare la loro patria colla presenza dell'illustre lor concittadino, pregavano Urbano V ad eleggerlo canonico di Firenze o di Fiesole: ma questo pontefice gli diede in vece un canonicato in Carpentras; e ricevuta una lettera del Petrarca, in cui con ammiranda libertà e con patetica eloquenza lo esortava a ricondurre la sua corte a Roma, abbandonò le sponde del Rodano per istanziarsi su quelle del Tevere. La gioja che il Petrarca provò per quest'avvenimento, e che espresse in un'altra lettera indiritta ad Urbano, fu temprata dalla morte del suo nipotino Francesco da Brossano, avvenuta in Pavia nel 1368, mentre egli assisteva in Milano alle solenni feste che si celebravano per le nozze di Violanta Visconti, figliuola di Galeazzo, con Leonello secondogenito del Re d'Inghilterra (1).

(1) Tiraboschi, tom. V, lib. III, cap. 2.

Avendo Urbano manifestata un'ardente brama di conoscere di presenza il Petrarca, questi si determinò a portarsi a Roma; e ponendo mente all'età provetta ed alle malattie che lo travagliavano, scrisse il suo testamento. Istituì erede universale Francesco da Brossano suo genero; lasciò al principe Carrarese una immagine della B. Vergine dipinta da Giotto; la cui bellezza, dice egli, non si comprende dagli ignoranti, ma empie di maraviglia i maestri dell' arte; ordinò che si pagassero cinquanta fiorini d'oro di Firenze al Boccaccio, onde si comprasse una veste che durante l'inverno lo coprisse nello studio e fra le notturne vigilie; e vergognossi di lasciare un sì tenue legato ad un grande personaggio. « Io voglio (così dispose de' suoi funerali e della sua sepoltura) che questo mio corpo venga senza alcuna pompa restituito alla terra d'onde ebbe l'origine. Nessuno mi pianga; perchè le lagrime tornano inutili ai defunti, dannose a chi le spande: si preghi piuttosto per me, o si distribuiscano elemosine ai poveri, esortandoli a darmi qualche suffragio di preghiere. Nor mi curo gran fatto del luogo della mia sepoltura: mi pongan pure ove a Dio piacerà... Io Francesco Petrarca ho scritto questo testamento; l'avrei fatto altrimenti se fossi ricco, come crede l' insano volgo" (1).

Partito da Padova e giunto a Ferrara, fu sorpreso da grave infermità, e conobbe allora

(1) Petr. Testam. Oper. tom. III, f. 116.

quale stima e benevolenza nutrissero inverso di lui i Marchesi d'Este. Quando la salute glielo permise, egli se ne tornò a Padova, e ritirossi nella villa d'Arquà. «Non volendomi io allontanar troppo dal mio benefizio (egli era canonico di Padova) in uno de' colli Euganei, lungi dalla città di Padova presso a dieci miglia, edificai una casa piccola, ma piacevole e decente, in mezzo ai poggi vestiti d'ulivi e di viti, sufficienti abbondevolmente a non grande e discreta famiglia. Or qui io traggo la mia vita; e benchè infermo nel corpo, pur tranquillo nell'animo, senza romori, senza divagamenti, senza sollecitudini, leggendo sempre e scrivendo, e lodando Dio, e Dio ringraziando, come de' beni, così de' mali, che, s'io non erro, non mi sono supplicj, ma continue prove » (1). Egli fu però tratto dal suo ritiro per accompagnare Francesco Novello figlio del principe Carrarese, che secondo le condizioni della pace conchiusa colla Repubblica di Venezia dovea presentarsi al senato per chiedere perdono e giurar fedeltà. Appresentatosi il Petrarca a quel venerando consesso insieme col giovane principe, tentò indarno di parlare: fosse reverenza per quell'augusta assemblea, fosse timore o difetto di memoria scemata dagli anni e dalle diuturne fatiche, gli morì la parola tra i denti, e dovette differir l'aringa al vegnente giorno, in cui fe' pompa della sua eloquenza.

(1) Petr. Sen. lib. XIV, ep. 6.

Dopo il suo ritorno da Venezia il Petrarca non fece che languire, e ritiratosi in Arquà fu trovato morto nella sua biblioteca col capo appoggiato su di un libro. Si crede che egli sia stato sorpreso dall' apoplessia, o, come altri più probabilmente scrivono, da epilepsia nella notte dei 19 luglio del 1374; onde si disse che egli passò dalla calma dello studio alla calma della morte. Francesco da Carrara con tutta la nobiltà, il vescovo di Padova col capitolo e col clero, ed il popolo tutto si portarono ad Arquà per celebrargli i funerali che furono magnifici. Poco dopo per ordine di Francesco da Brossano venne eretta un'arca di pietra rossa sostenuta da quattro colonne in sul sacrato della chiesa di Arquà, e vi si apposero tre versi, che Filippo Villam dice composti dallo stesso Petrarca.

La vita letteraria di questo peregrino ingegno italiano, o l'enumerazione e l'esame delle sue opere ci chiarirà più della sua vita civile e politica della influenza che egli ebbe sul risorgimento delle lettere, e sulla perfezione dell'italica favella. Molte sono le sue opere latine che comprendono tutto lo scibile della sua età, anzi lo superano di molto. È dunque prezzo dell'opera il venirle esaminando, prima di parlare del suo capolavoro, dell' immortal Canzoniere, che egli stesso prima di morire s'accorse essere graditissimo agli Italiani; onde cantò: S'io avessi pensato che si care

Fossin le voci de' sospir' miei in rima,

Fatte l'avrei dal sospirar mio prima

In numero più spesse, in stil più rare (1).

Primo il Petrarca s'avvide che per vergar le carte in buon latino, era d'uopo porre dall'un de' lati il barbaro linguaggio delle scuole, e levarsi dallo stile della dialettica, della teologia e del diritto, fino a quello dell' eloquenza e della poesia di Cicerone e di Virgilio. Questi furono i due modelli che egli si propose nelle sue prose e poesie latine. La sua penna è in esse sempre libera e facile, talvolta anche elegante; talvolta i suoi pensamenti vi appajono vestiti dei colori di que' due grandi maestri. Qualunque sia al presente la sorte di questi componimenti, essi rendettero segnalati servigi alle lettere in quel secolo; mostrarono la via che calcar si dovea per far ritorno alla buona latinità: e se i grandi scrittori che nel xvI secolo fissarono i destini della lingua italiana, e non poterono superar il Petrarca, e nemmeno uguagliarlo nella volgar poesia, lo lasciarono indietro di gran tratto nei versi e nelle prose latine, a lui però rimane sempre la gloria d'aver primo fra tutti i moderni discoperte le vestigia degli antichi, e d'averle indicate a coloro che doveano seguirlo (2).

Fra le opere latine del Petrarca primeggia il suo trattato Dei Rimedj dell' una e dell'altra fortuna da lui scritto per giovare ad Azzo da

(1) Par. II, son. 252, XXV dell' ediz. del Marsand. (2) Ginguené, Hist. Littér. tom. II, chap. 13. MAFFEI, St. lett. ital. Vol. I.

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