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coll'opera di Valerio Massimo, pure l'autore non si rendette mai plagiario (1). Un altro libro storico scrisse il Petrarca, di cui non ci rimane che una scarna epitome, ed una più ampia versione italiana che fu adottata dagli Accademici della Crusca come testo di lingua: esso è intitolato le Vite degli Uomini illustri (2). E siccome la geografia è, al dir di Polibio, uno degli occhi della storia; così il Petrarca non trascurò di addottrinarsi in essa, come ne fanno fede il suo Itinerario Siriaco, in cui descrive il viaggio di Terra Santa, additando i luoghi più celebri e le cose più notevoli; e quella lettera in cui si sforza di dar notizie precise intorno all'isola di Thule o Tile, di cui si spesso parlarono gli antichi (3).

Imitatore in tutto di Cicerone, sentì il Petrarca la necessità di intertenere una attiva corrispondenza epistolare, onde scrisse tutte quelle lettere che sono raccolte nei libri così detti delle Cose famigliari, delle Senili, delle Varie e di quelle senza titolo. E sì che un giorno, aperti alcuni vecchi forzieri pieni di polvere e di papiri, ne abbruciò molte, conservando quelle sole che a lui parvero più importanti. Molte di esse sono indiritte ai più celebri principi, repubbliche e letterati del secolo XIV: trattano talora le materie sublimi della ragione di Stato; narrano le fortunose

(1) Corniani, Sec. della Letter. epo. II, art. 10.
(2) Vitarum Illustrium Virorum Epitome.
(3) Petr. Ker. Fam. lib. III, epist. 1.

vicende dei popoli, e le improvvise rivoluzioni dei governi; informano del riuscimento di difficili ambascerie; descrivono i costumi di varie nazioni; confortano gli Italiani a spegnere gli odj intestini (1). Quelle che sono appellate senza titolo fanno un'orrenda pittura dei disordini della corte avignonese, e sono conformi a que' sonetti in cui quell'anima sdegnosa fulminò l'avara Babilonia. Questi componimenti però peccano di una certa prolissità, che si dee attribuire al carattere dell'amicizia di lui, che il De Sade appella ciarliera. L'autore sapea che le lettere da lui dirette ai principi ed agli Stati giravano nelle mani di tutti, onde le scriveva con molto studio ed arte. « Le lettere del Petrarca, dice il Sismondi, in cui fuor di proposito facea pompa di tanta erudizione e ricercatezza di concetti, si riguardavano a que' tempi quali esemplari di eleganza e di buon gusto; si copiavano bentosto, e si trasmettevano dall' una all' altra persona, e spesso non erano ricapitate che dopo essere state lette dal pubblico... Il solo nome di questo scrittore equivaleva ad una potenza; e le lettere talvolta eloquenti e sempre ardite, con cui egli richiamava il Pontefice a Roma, circolavano per tutta la Europa » (2).

Se nella prosa egli tentò di imitar Cicerone, nelle poesie latine volle seguir le orme di Virgilio. Per nulla atterrito dalle difficoltà

(1) Viag. del Petrarca, prefaz.

(2) Sismondi, Hist. des Rép. Ital. chap. 41 e 48.

dell' epopea, osò di scrivere il poema dell'Africa che formò la maraviglia del suo secolo, e che se non vanta l'eleganza dei tempi d'Augusto, è però il più elaborato e più bello che si scrisse nella lingua del Lazio appena dopo il risorgimento delle lettere; anzi è un monumento che conservar si dee al par di que' quadri e di quelle statue formate nell'infanzia dell'arte, che non ne accrescono nè la gloria, nè i piaceri, ma che non si esaminano senza frutto, quando si ha vaghezza di studiarne la storia (1).

L'Affrica del Petrarca è, al par della Farsaglia di Lucano, un racconto di grandi ed importanti fatti storici esposti con tutta la pompa e con tutti gli abbellimenti della poesia. Il primo libro contiene la proposizione, l'invocazione, la dedica al re Roberto, e le cagioni della seconda guerra punica. La contessa Franco nipote dell' abate Roberti traslatò in versi sciolti questo primo libro, e quantunque si coprisse sotto il nome arcade di Egle Euganea, pure tentò di tenersi lontana dalle frascherie degli Arcadi. In questo poema non si trova, propriamente parlando, ciò che i Critici appellano maraviglioso dell' Epopea. La sola avventura in cui non si segue la storica verità è un sogno descritto nel primo e nel secondo libro, in cui l'eroe del poema vede Pubblio Scipione suo padre; ma anche quest' episodio è una semplice imitazione del Sogno di Scipione

(1) Ginguené, tom. II, chap. 13.

dell' Oratore latino. In esso si parla della morte del console Paolo Emilio assalito dai nemici dopo la battaglia di Canne alla presenza di quello stesso giovane che gli avea offerto il suo cavallo per agevolargli la fuga.

Come qualora assedia un serpe astuto
D'augelli un nido, l'affannosa madre
Va palpitando, ed or l'orror di morte,
Or quel la strigne di lasciare in preda
I cari figli di quell'angue fero,
Pietà infelice! Alfin vinta da tema
Cede, e del viver suo, scosse le penne,
Tarda cura si prende, e dal vicino
Arbor rimira qual de' figli strazio
Fa la nemica rabbia, e s'ange e trema;
E il bosco empiendo d'affannosi lai,
Tenta d' aitarli con dolenti strida;

Tal sen giva il garzon, volgendo indietro
Spesso le meste luci.

Scipione in principio del secondo libro domanda al padre quale sarà la fine della guerra cartaginese; ed egli predice il trionfo di Roma, e la rovina dell'orgogliosa sua rivale; ma amareggia al figliuolo il piacere di ascoltare i trionfi della sua patria col vaticinargli che le spoglie delle vinte nazioni e l'eccidio di Cartagine precipiterebbero la romana repubblica in un abisso di mali, e la assoggetterebbero al dominio di un ambizioso cittadino. Molte belle sentenze adornano questi due libri; ma siccome essi non contengono che un sogno, così è d'uopo confessare che troppo a lungo dorme l'eroe del poema. Nel terzo libro

Lelio spedito da Scipione passa nell' Africa col re Siface per confortarlo a stringere alleanza con Roma. La reggia del Principe Numida è descritta con elegante sublimità; il romano ambasciatore viene accolto ad uno splendido convito; un giovane esperto nella musica e nella poesia canta l'origine della superba Cartagine; indi Lelio imprende a narrare le più gloriose gesta dei Romani, e si compiace nel dipingere la morte di Lucrezia che alzò in Roma il grido della libertà. Il terzo libro del poema termina senza che l'azione sia cominciata; nè si vede che essa abbia principio nel quarto, che contiene un semplice racconto della vita di Scipione fatto da Lelio. Fra le gesta più illustri del suo eroe, Lelio esalta precipuamente l'assedio e la presa di Cartagena, in cui Scipione si mostrò generoso e continente verso alcune belle prigioniere, e restituì senza riscatto la più avvenente allo sposo. Il Ginguené s'avvide avervi qui una considerabile lacuna non avvertita da verun Critico italiano; tanto, dice egli, il poema dell'Affrica, sì spesso menzionato negli scritti ne' quali si parla del Petrarca, è poco letto, poco conosciuto. Il quarto libro termina nell'istante in cui Lelio narra a Siface che in un appartamento del palazzo si udivano le grida delle principesse cattive, e delle ancelle loro seguaci; e che Scipione conoscendo il pericolo che correre poteano se apparissero agli occhi dell' esercito, vietò che alcuno entrasse nel loro asilo, anzi le fe' condurre in luogo sicuro lungi dal

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