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ragione della forza apprendevano da coloro i nomi dell' arme che li oppressero, e de' nuovi reggimenti che si fondavano. "

E qui cade in concio il considerare col Castelvetro e col Muratori come facilmente abbiano potuto gli Italiani seguir l'uso dei Longobardi e dei Franchi di anteporre l'articolo ai nomi. Facilmente dal latino pronome ille, illa, illi, ec., si formarono gli articoli del volgare; giacchè potendo la plebe dire illo caballo, illa hasta, illae feminae, lasciando la prima o l'ultima sillaba di esso pronome, incominciò per amore di brevità a dire il cavallo o lo cavallo, la asta, le femmine. La quale opinione mirabilmente si conferma dal pronome loro, formato senza alcun dubbio da illorum, toltone il, come si conferma da alcuni documenti dell' età di Carlo Magno. Sembra altresì che negli antichi secoli per distinguere l'illi dativo dal nominativo plurale si dicesse illui; onde nacque lui, che però dal Bignon e dal Menagio si reputa formato dall' illius (1).

Ma alcune voci mutate od aggiunte non potevano cangiar subito il latino, nè formare la nostra favella, che empiendo quasi tutte le voci, e chiudendole colle vocali, non poteva essere a noi portata dai ruvidi settentrionali, che tutte le terminano in eonsonanti. Durò adunque il latino, non già l'illustre, che si udiva nel senato e nella corte di Cesare, e che era stato educato da tanti egregj scrittori, ma

(1) Muratori, Antiq. Ital. dissert. 32.

quel romano rustico che suonava sulle labbra dell'intero volgo dell' Europa latina, e che si corrompeva sempre più per la trascuraggine di que' dotti che si davano vanto di spregiarne apertamente ogni legge (1). Lo stesso Gregorio Magno, uomo di romano sangue, che da prefetto della città era divenuto pontefice, credeva bello il confessare di non inchinarsi ad osservare il suono e i casi voluti dalle preposizioni; stimando iniquo che le parole de' Celesti si stringessero alle regole di Donato.

Intanto il romano rustico penetrava là dove non era giunto il buon latino; ed il Mezerai narra " che i popoli della Neustria e i più lontani dal Reno a poco a poco abbandonarono, intorno il sesto secolo, la favella germanica, e da' Galli tolsero la romana, che dicevasi ancora latina rustica, generata dal cenere del buon latino, e solo diversamente piegata ed acconcia all' indole delle nazioni e a' dialetti delle svariate provincie ». Dal che si conchiude che due lingue allora si divisero l'imperio dell'Europa, cioè la romana e l'alemanna; e si conferma col solenne giuramento con cui Lodovico re di Germania e Carlo il Calvo re di Francia fermarono pace l'anno 842 ai 15 marzo in Strasburgo. Ognuno di que' due principi giurò nella favella del suo nemico; ed avendo Carlo parlato tedesco, Lodovico parlò romano. Ora riscontrando la lingua di costui da un lato colla latina del quinto secolo,

(1) Perticari, Dif. di Dante, cap. 8.

dall' altro coll' italica del dugento, si vedrà come stiasi in mezzo a queste due, fatta figliuola alla latina e madre all'italica (1).

Il rustico romano, o la lingua romanza non fu, come mal s' apposero alcuni, ristretta nei soli termini della Provenza, ma divenne generale e comune a tutti que' popoli che furono sottoposti a Carlo Magno, la cui dominazione si estendeva su tutto il mezzodì della Francia, sovra gran parte della Spagna, e su quasi tutta la Italia. Questa lingua era il vincolo che rannodava i Francesi, gli Italiani e gli Spagnuoli, che senza vocabolarj e senza grammatiche si intendevano con quella loro favella romanza meglio che ora noi non facciamo coll' uso de' libri e de' maestri, come lo provano i documenti che si possono leggere nel Mabillon e nel Muratori, e principalmente il Capitolare di Carlo Magno, che nell'anno 813 ordinò che si predicasse Cristo a tutti i suoi popoli nel volgare romano (2).

(1) E prezzo dell' opera il leggere il giuramento di Lodovico nell'opera del Perticari, che scrisse in carattere majuscolo quelle lettere, le quali sono comuni ai tre stati della nostra lingua; cioè al latino, al romano e all' italico, rimanendo le minuscole a notarne le distinzioni. «Che se alcuno, dice egli, in tutti e tre questi esempj andrà leggendo le sole majuscole, vedrà con sua meraviglia uscirne una sola e stessa lingua; e la romana, che è posta fra le due, tanto prendere dalla destra quanto concede alla sinistra ». Della Difesa di Dante, cap. 9.

(2) Cap. Regn. Franc. 813.

Quando per la novità de' feudi e de' baronaggi quel francese impero, dice il Perticari, si squarciò a brani, il Comune Romano anch' esso fu partito nel Limosino, nel Provenzale, nell' Italico, nel Vallone, nel Catalano ed in altri. Ma i Provenzali innalzarono bentosto il dir romano a stato di lingua illustre, lo scrissero prima del novecento, e con esso cantarono i loro amori e le imprese guerresche. E ciò addivenne, perchè le lingue scritte non create, nè conservate dalla plebe, lo sono nei parlamenti delle repubbliche e nelle corti delle monarchie; ed i Provenzali ebbero principi e cortesi e magnanimi, fra' quali si distinse Raimondo, al cui palagio convenivano i letterati ed i gentiluomini della Francia, dell'Italia e della Catalogna, onde giostrare ne' tornei per le dame, e disputare nelle corti d'amore intorno a quella che essi chiamavano la gaja scienza (1).

Non così avvenne del romano che si parlava nella Italia, e che molto più tardi si fece illustre e gentile. In quelle rabbiose ed eterne fazioni dei Guelfi e dei Ghibellini non v'erano corti splendide di principi, non consessi in cui spandere si potessero i fiumi dell' eloquenza; ed i piccoli Stati italiani o schiavi o discordi soffrivano l'onte della servitù, od i furori della licenza; posciachè od erano lacerati dall'intollerando orgoglio di ricchi corrotti e superbi, o dall'arrogante viltà di plebei timidi e loquaci.

(1) Perticari, Dif. di Dante, cap. 11.

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Solo i cherici ed i notai scrivevano; ma seguivano il falso loro latino, anzichè vergare loro carte nel polito volgare. Così fino verso il 1160 giacque inonorata questa lingua; sì perchè non poco spazio di tempo fu necessario a renderla così diversa dalla latina che divenisse altra lingua; sì perchè essendo ella usata solo dal volgo, non pareva che all'onor de dotti si convenisse l'introdurla ne' libri (1).

Fu il magnanimo Federico II che tolse la nostra lingua dai trivj, la introdusse nella corte, e la coltivò insieme de' suoi figliuoli Manfredi ed Enzo, e di Pier delle Vigne suo segretario. Egli poetava nell'età giovanile, e cento e più anni avanti che Dante scrivesse il suo poema, ed esiste ancora una sua canzone in cui celebra la sua donna, cantando che null' uomo potria vostro pregio cantare: di tanto bella siete! E donde mai egli avea tolta questa favella? Dalle sue corti di Napoli e di Palermo, ove raunato avea il fiore di tutta la Italia; giacchè si legge in un antico novelliere, ❝ che la gente

che aveva bontade veniva a lui da tutte le parti e l'uomo donava molto volentieri, e mostrava belli sembianti: e chi aveva alcuna speciale bontà a lui veniano; trovatori e belli parlatori" (2). Egli fondò la università di Napoli, che bentosto fiorì in quella popolosa metropoli; aprì varie scuole in Palermo e nelle altre città siciliane; diede un novello splendore

(1) Tiraboschi, tom. III, prefaz.

(2) Cento Novelle antiche, nov. 20.

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