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Noi siamo d'avviso che alcune mende del Decamerone si debbano attribuire all' ignoranza indomabile dei copisti e dei tipografi, non che alla presunzione dei correttori. Il Concilio di Trento avea notata quest'opera infra le vietate, finattantochè non si correggeva quel che eravi di cattivo. Il gran duca Cosimo I porse prieghi a Pio V per la correzione di essa; e quel Pontefice ne affidò la cura ad alcuni teologi, che ne tolsero dove parole, dove sentenze e dove parti intere. Nel 1571 fu spedito a Firenze il Decamerone così mutilato; e l'Accademia nominò quattro deputati, i quali si adoperarono due anni sia per salvare più intatto che potevano il libro dalla censura fatta in Roma, sia per mondarlo dalle offese fattegli dai precedenti editori; al qual uopo si valsero principalmente dell'edizione del 1527 detta la ventisettana, correggendola però col confronto dell'ottimo testo Mannelli. E per non apparire ne' loro cangiamenti o capricciosi od arbitrarj, scrissero alcune annotazioni con lingua pura e corretta. Questa letteraria fatica dei Deputati vide la luce nel 1574, e fu biasimata da ambe le parti: nella corte di Roma si diceva che il Boccaccio meritava più severa censura; e gli ammiratori di esso gridavano che egli era stato di troppo tarpato nella stampa dei Deputati. Il gran duca Francesco I ordinò che questo libro si correggesse nuovamente, e ne diede l'incarico al Salviati, che in fatto di lingua era venerato come l'oracolo di Firenze. E comechè costui abbia dati alcuni

luoghi più corretti di quello che sieno nella stampa dei Deputati, pure in altre parti lo mutilò con arbitrio grandissimo anche ne' luoghi ove nol richiedeva il buon costume. Nessuno ardì zittire, mentre viveva il Salviati, divenuto despota nel regno delle lettere; ma il Boccalini alzò contro di lui la sferza nella Pietra del Paragone, e disse: « lui aver con tante ferite lacerato il Boccaccio, che non era riconoscibile. E quello che in infinito ha aggravato tanto eccesso, è stato che il Salviati non per disgusto particolare che abbia ricevuto dal Boccaccio, ha commesso così brutto mancamento, ma ad istanza de' Giunti stampatori di Firenze, per avarizia di venticinque seudi che gli hanno donati per premio di così grande scelleratezza ». Dopo quest'epoca nessuno si curò più di siffatte correzioni, e si continuò a stampare il Decamerone non mutilato nell'Italia, nella Francia, nell' Olanda e nell'Inghilterra (1).

(1) V. il Manni Ist. del Decam. par. III; Zeno, note al Fontan. vol. II, p. 177.

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CAPO VIII

Le Cento Novelle antiche.

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e Novelle. Il Pecorone di ser Giovanni. Giovanni, Matteo e Filippo Villani. Specchio di vera penitenza del Passavanti.

1

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Trattato del Buon governo della fami

di S. Concordio.
glia di Agnolo Pandolfini.

Quantunque si dica comunemente che il Boccaccio fu il primo scrittor di novelle, pure egli non ha diritto al primato, se non per la eleganza in cui nessuno lo ha mai potuto uguagliare. Prima di lui l'Italia aveva avuti alcuni novellatori; e ce ne fanno fede le Cento Novelle antiche, che non sono tutte del medesimo secolo, e ne contengono anche alcune posteriori al Beccaccio; ma varie di esse hanno un cotal contrassegno di antichità, che a ragione si credono scritte o alla fine del secolo decimoterzo, od al principio del decimoquarto (1). Esse consistono per lo più in leggiadri motti, in brevi avventure, in incidenze storiche; sono scritte con aurea semplicità, e non comprendono cose illecite e men che oneste.

Franco Sacchetti visse negli anni del Boccaccio; ma fu più giovane di lui, essendo nato in Firenze verso il 1335, e mortovi poco oltre il 1400. I suoi concittadini lo onorarono di ragguardevoli cariche e di diverse ambascerie; il suo leggiadro ingegno lo rendette caro ai più dotti personaggi ed ai più possenti signori di quella età: ciò non pertanto l'avversa fortuna

(1) Tiraboschi, tom. V, lib. III, cap. 2.

lo travagliò con malattie e con gravi danni. Egli fu tenuto in conto di uno de' più eleganti poeti del suo secolo; e varie sue poesie giacciono manoscritte, ed alcune furono stampate dopo la Bella Mano di Giusto de' Conti. Ma egli va debitore della sua fama alle Novelle principalmente, dalle quali si ricavano varj lumi per la storia di quell'età; perchè vi si descrivono feste, abiti, conviti, nozze, giuochi, ornamenti pubblici e privati, e cose a queste somiglianti (1). Il Sacchetti ne scrisse trecento, ma noi non ne abbiamo che dugentocinquantotto. Egli non si strinse, come il Boccaccio, ad una generale finzione che le racchiudesse; nè le fece raccontare dagli altri, ma tutto narra di sua bocca, e le più volte avverte esser quelli accidenti da se stesso veduti. Questi racconti, più brevi generalmente di quelli del Certaldese, sono la maggior parte festevoli, ed esposti senza studio veruno; non altrimenti che se uno per sollazzare altrui, cominciasse a sollazzar se medesimo. Lo stile è sempre puro, e tiene spesso del comunal volgare; onde non di rado si incontrano molti riboboli fiorentini e molte viete parole. Le oscenità ed i modi men che onesti turpano anche questo libro, ma non vi sono profusi come nel Decamerone.

Ci è ignoto perfino il cognome di ser Giovanni Fiorentino, che scrisse le sue Novelle col titolo curioso di Pecorone. Alcuni per induzione lo credettero un Frate francescano;

(1) Bottari, pref. alle Nov. del Sacchetti.

ed altri erroneamente asserirono che egli fosse Giovanni Villani; mentre questi morì nel 1348, e le Novelle furono scritte trent'anni appresso, come si deduce da quel meschino sonetto che ad esse si legge in fronte e che incomincia: Mille trecento con settant' ott' anni

Veri correvan, quando incominciato
Fu questo libro, ec.

Il Pecorone per rispetto alla invenzione ed all'artificio si accosta al Decamerone, ma è molto ad esso inferiore nell'eleganza della elocuzione. Per legare insieme le novelle con una sola finzione l'autore immaginò che un giovane, innamoratosi di una bellissima monaca giovinetta e di santa vita, si fece frate, e fu eletto cappellano di quel monastero; e per tal modo potè spesso ritrovarsi colla sua bella monaca, e si convennero insieme, per passamento di tempo, di raccontarsi a vicenda una novella ogni dì. Non sono più di cinquanta le novelle del Pecorone, e distinte in giornate; le due prime di queste abbracciano novelle assai somiglianti per la lor tessitura a quelle del Boccaccio; salvo che non oltrepassano mai i termini dell'onestà; e le locuzioni sono ancora più costumate: ma le novelle delle altre giornate non trattano che storici argomenti, i quali per altro non si apprezzano, se non pei modi sinceri e nativi onde sono raccontati (1).

(1) Conte Ferri, Spettat. ital. vol. I, șez. 3.

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