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Deh porgi mano all' affannato ingegno,

Amor, ed allo stile stanco, e frale

Per dir di quella ch'è fatta immortale,
E cittadina del celeste regno.

Dammi, Signor, che 'l mio dir giunga al segno
Delle sue lode, ove per se non sale,
Se virtù, se beltà non ebbe eguale

Il mondo, che d'aver lei non fu degno.
Risponde: Quanto ciel ed io possiamo,

E i buon consigli, e 'l conversar onesto, Tutto fu in lei, di che noi morte ha privi. Forma par non fu mai dal dì ch'Adamo

Aperse gli occhi in prima: e basti or questo:
Piangendo il dico, e tu piangendo scrivi.

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è mai pretosa madre al caro figlio,
Nè donna accesa al suo sposo diletto
Diè con tanti sospir, con tal sospetto
In dubio stato sì fedel consiglio:
Come a me quella, che 'l mio grave esiglio
Mirando dal suo eterno alto ricetto,
Spesso a me torna con l'usato affetto,
E di doppia pietate ornata il ciglio,
Or di madre, or d'amante, or teme, or arde
Donesto foco, e nel parlar mi mostra

Quel, che in questo viaggio fugga o segua, Contando i casi della vita nostra:

Pregando, che al levar (1) l'alma non tarde ;
E sol, quant' ella parla, ho pace o tregua.

S. I. Questo S. è difeso dalle imputazioni del Tassoni dal Filalete G. VII. dove dice: Non c'è concer to o verso, che non sia una gemma.

S. II. Il Tassoni: Questo sì che merita luogo fra quei della prima fila.

(1) Un MS. estense riportato dal Mur. a levar non già al levar.

Dch

Deh qual pietà, qual angel fu sì preste

A portar sopra. il cielo il mio cordoglio? Ch' ancor sento tornar, pur come soglio, Madonna in quel suo atto dolce, onesto', Ad acquetar il cor misero e mesto,

Piena si d'umiltà, vota d'orgoglio;

E 'n somma tal, ch'a morte mi ritoglio.
E vivo, e 'l viver più non m'è molesto.-
Beata fè, che puoi beare altrui

Con la tua vista, ovver con le parole
Intellette da noi soli ambedui

Fedel mio caro assai di te mi dole:

Ma pur per nostro ben dura ti fui,
Dice, e cos' altre d'arrestar il sole.

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Conobbi quanto il ciel gli occhi m'aperse,

Quanto studio ed amor m' alzaron l'ali :
Cose nove e leggiadre, ma mortali,
Che 'n un soggetto ogni stella cosperse.
L'altre tante sì strane e st diverse

Forme altere celesti ed immortali
Perchè non furo all' intelletto eguali,
La mia debile vista non sofferse;
Onde quant' io di lei parlai ne (3) scrissi-
Ch' or per lodi anzi a Dio preghi mi rende,
Fa breve stilla d'infiniti abissi !

Che stile oltra l'ingegno non si stende;
E per aver uom gli occhi nel sol fissi,
Tanto si vede men, quanto più splende..

S. I. Il Murat. Se 'l vuoi riporre fra i più prege. voli del P. io non ti farà contrasto.

S. II. Il Tassoni, di questo S. è in stile magnifico ed avanza.... quanti ne sieno mai stati compo

sti da chi che sia.

(1) Ne per ovvero. "Così in altro luogo.
Se gli occhi tuoi ti fur dolci ne cari.

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Ripensando a quel ch'oggi il cielo onora

Soave sguardo, al chinar l'aurea testa,
Al volto, a quell' angelica modesta

Voce, che m' addolciva ed or m2 accora;
Gran meraviglia ho com' io vivo ancora.

Ne vivrei già, se chi tra bella e onesta Qual fu più lasciò in dubbio, non si presta Fosse al mio scampo là verso l'aurora. O che dolci accoglienze, e caste e pie; E come intentamente ascolta e nota La lunga istoria delle pene, mie! Poichè 'I di chiaro par che la percota, Tornasi al ciel, che sa tutte le vie, Umida gli occhi e una e l'altra gola.

Lasciato hai, Morte, senza sole il mondo
Oscuro e freddo, amor cieco ed inerme,
Leggiadria ignuda, le bellezze inferme,
Me sconsolato ed a me grave pondo,
Cortesia in bando ed onestate in fondo ;
Dogliom io sol, nè sol ho da dolerme,
Che svelt' hai di virtute il chiaro germe:
Spento il primo valor, qual fia 'l secondo?
Pianger l'aer, la terra,
mar dovrebbe
L'uman legnaggio, che senz' ella è quasi
Senza fior prato, o senza gemma anello.
Non la conobbe il mondo, mentre l'ebbe:
Conobbil' io, ch'a pianger qui rimasi:

די

E. 'l. ciel, che del mio pianto or si fa bello.

S.. I. It Muratori chiama questo S. degno di occupar posto fra gli ettimi.

Quel

Quel

6

uel rosignuol, che sì soave piagne
Forse suoi figli o sua cara consorte,

Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note si pietose e scorte;
E tutta notte par che m' accompagne,

E mi rammenti la mia dura sorte;

Ch' altri che me non ho di cui mi lagne
Che 'n Dee non credev' io regnasse morte.

O che lieve è ingannar chi s'assecura!

Que' duo bei lumi assai più che il sol chiari.
Chi pensò mai veder (1) far terra oscura?

Or conosco io, che mia fera ventura

Vuol che vivendo e lagrimando impari,
Come nulla quaggiù diletta e dura.

Tornami a mente, anzi v'è dentro quella,

Ch'indi per Lete esser non può sbandita,
Qual io la vidi in su l'età fiorita,
Tutta accesa de' raggi di sua stella.
Sì nel mio primo occorso onesta e bella
Veggiola in se raccolta, e sì romita,
Ch'i'grido: Ell' è ben dessa, ancor è in vita;
E in don le chieggio sua dolce favella.
Talor risponde, e talor non fa motto:

I' com'uom ch' erra, e poi più dritto estima,
Dico alla mente mia: tu se' ingannata:

Sai che 'n mille trecento quarant' otto

Il dì sesto d' april nell'ora prima
Del corpo uscio quell' anima beata.

(1) Far, cioè farsi.

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vo piangendo i miei passati tempi,
I quai posi in amar cosa mortale,
Senza levarmi a volo, avend' io l'ale,
Per dar forse di me non bassi esempi.
Tu che vedi i miei mali indegni ed empi,
Re del cielo, invisibile, immortale,
Soccorri all'alma disviata e frale,

El suo difetto di tua grazia adempi:
Sicchè, s'ho vissi in guerra ed in tempesta,
Mora in pace ed in porto, e se la stanza
Fu vana, almen sia la partita onesta.

A quel poco di viver, che m'avanza,

Ed al morir degni esser tua man presta.
Tu sai benche, 'n altrui non ho speranza.

DI BUONACCORSO MONTEMAGNO

Avventu

vventurato dì, che col secondo

Favor della divina alma bontade
Producesti l'esempio di Beltade,

Che di tanta eccellenza adorna il mondo:
Sempre onorato a me, sempre giocondo
Verrai, sia pur in qualsivoglia etade:
Tal giogo nacque alla mia libertade
E si soave, ch'io non sento il pondo..
In te ne fu dal ciel mandato in terra

L'albergo di virtù con tal valore,
Ch'ogni cosa terrestre a lui s'inchina.
In te fuggì del mondo invidia e guerra,

E sol più che mai lieto apparse fuore,
Perchè nascer dovea cosa divina.

S. I. A Dio. Mur. Non avrei difficoltà di chiamarlo uno de' migliori del Petrarca.

S. II. Questo S. da alcuni è attribuito ancora al Trissino, e tra le rime di lui stampato..

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