Vôltasi Laura a salutarlo, il Sole per gelosia si ricoperse con una nube. In mezzo di duo amanti onesta altera Un nuviletto intorno ricoverse: Non desidera, non contempla e non trova che la immagine della sua Donna. Pien di quella ineffabile dolcezza Che del bel viso trassen gli occhi miei Nel dì che volentier chiusi gli avrei Che 'l pensier mio figura ovunqu' io sguardo. Se veder potesse la casa di Laura, i sospiri le giugnerebbero più spediti. Se 'I sasso ond'è più chiusa questa valle, Di che 'l suo proprio nome si deriva, Tenesse vôlto, per natura schiva, A Roma il viso ed a Babel le spalle; I miei sospiri più benigno calle Avrian per gire ove lor spene è viva: Or vanno sparsi, e pur ciascuno arriva Là dov'io 'l mando, che sol un non falle. E son di là sì dolcemente accolti, Com'io m' accorgo, che nessun mai torna: Con tal diletto in quelle parti stanno. Degliocchi è 'l duol; che tosto che s'aggiorna, Per gran desio de'be' luoghi a lor tolti, Danno a me pianto, ed a'piè lassi affanno. Benchè conosca d'essere infelice nel suo amore, è fermo di volerla amar sempre. Rimansi addietro il sestodecim'anno De' miei sospiri; ed io trapasso innanzi Verso l'estremo; e parmi che pur dianzi Fosse il principio di cotanto affanno. L'amar m'è dolce, ed util il mio danno, E 'l viver grave; e prego ch' egli avanzi L'empia fortuna; e temo non chiuda anzi Morte i begli occhi che parlar mi fanno. Or qui son, lasso, e voglio esser altrove, E vorrei più volere, e più non voglio, E per più non poter fo quant' io posso. E d'antichi desir lagrime nove Provan com' io son pur quel ch'i' mi soglio, Nè per mille rivolte ancor son mosso. Eccita Amore a fare vendetta di Laura, che superba disprezza il suo regno. Or vedi, Amor, che giovenetta donna Tu se' armato, ed ella in trecce e'n gonna I' son prigion; ma se pietà ancor serba L'abito non si lascia, benchè abbiasene danno. Propone sè stesso in esempio. Dicessett' anni ha già rivolto il cielo Poi che'n prima arsi e giammai non mispensi; Ma quando avven ch' al mio stato ripensi, Sento nel mezzo delle fiamme un gelo. Vero è 'l proverbio, ch'altri cangia il pelo Anzi che 'l vezzo; e per lentar i sensi, Gli umani affetti non son meno intensi: Ciò ne fa l'ombra ria del grave velo. Oimè lasso; e quando fia quel giorno Che mirando 'l fuggir degli anni miei, Esca del foco e di sì lunghe pene? Vedrò mai il dì che pur quant' io vorrei Quell' aria dolce del bel viso adorno Piaccia a quest'occhi, e quanto si convene? SONETTO LXXXIV. -98. Laura impallidisce alla novella ch'egli debba da lei allontanarsi. Quel vago impallidir che 'l dolce riso D'un' amorosa nebbia ricoperse, Con tanta maestade al cor s' offerse, Che li si fece incontro a mezzo 'I viso. Conobbi allor sì come in paradiso Vede l'un l'altro; in tal guisa s'aperse Quel pietoso pensier, ch' altri non scerse, Ma vidil' io, ch'altrove non m'affiso. Ogni angelica vista, ogni atto umíle Che giammai in donna, ov' amor fosse, apparve, Fôra uno sdegno a lato a quel ch' i' dico. Chinava a terra il bel guardo gentile, E tacendo dicea (com'a me parve): Chi m'allontana il mio fedele amico? |