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Regga ancor questa stanca navicella
Col governo di sua pietà natia,

Nè diventi altra, ma pur qual solia
Quando più non potei,

Che me stesso perdei,
Nè più perder devrei.

Mal fa chi tanta fè sì tosto oblia.

Io nol dissi giammai, nè dir poria Per oro o per cittadi o per castella. Vinca 'l ver dunque e si rimanga in sella, E vinta a terra caggia la bugia.

Tu sai in me il tutto, Amor: s'ella ne spia, Dinne quel che dir dêi.

I'beato direi

Tre volte e quattro e sei

Chi, devendo languir, si morì pria.

Per Rachel ho servito e non per Lia:

Nè con altra saprei

Viver; e sosterrei,

Quando 'l Ciel ne rappella,

Girmen con ella in sul carro d'Elia.

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Non può vivere senza vederla, e non vorrebbe morire per poter amarla.

Ben mi credea passar mio tempo omai
Come passato avea quest'anni addietro,
Senz'altro studio e senza novi ingegni:
Or poi che da Madonna i' non impetro
L'usata aita, a che condotto m'hai,
Tu 'l vedi, Amor, che tal arte m'insegni.
Non so s'i' me ne sdegni ;

Chè 'n questa età mi fai divenir ladro
Del bel lume leggiadro,

Senza 'l qual non vivrei in tanti affanni.
Così avess'io i prim' anni

Preso lo stil ch' or prender mi bisogna;
Chè 'n giovenil fallire è men vergogna.
Gli occhi soavi, ond'io soglio aver vita,
Delle divine lor alte bellezze

Furmi in sul cominciar tanto cortesi,

Che 'n guisa d'uom cui non proprie ricchezze,
Ma celato di for soccorso aita,

Vissimi; che nè lor nè altri offesi.
Or, bench'a me ne pesi,

Divento ingiurioso ed importuno;
Chè 'l poverel digiuno

Vien ad atto talor che 'n miglior stato
Avria in altrui biasmato.

Se le man di pietà invidia m'ha chiuse,
Fame amorosa e 'l non poter mi scuse.
Ch'i'ho cercate già vie più di mille
Per provar senza lor se mortal cosa
Mi potesse tener in vita un giorno;
L'anima, poi ch' altrove non ha pósa,
Corre pur all'angeliche faville;
Ed io, che son di cera, al foco torno;
E pongo mente intorno,

Ove si fa men guardia a quel ch'i' bramo;
E come augello in ramo,

Ove men teme, ivi più tosto è colto,

Così dal suo bel volto

L'involo or uno ed or un altro sguardo:

E di ciò insieme mi nutrico ed ardo.

Di mia morte mi pasco e vivo in fiamme: Stranio cibo e mirabil Salamandra!

Ma miracol non è; da tal si vole.
Felice agnello alla penosa mandra

Mi giacqui un tempo; or all'estremo famme

E Fortuna ed Amor pur come sôle:

Così rose e viole

Ha primavera, e 'l verno ha neve e ghiaccio.
Però, s'i' mi procaccio

Quinci e quindi alimenti al viver curto,
Se vôl dir che sia furto,

Si ricca donna deve esser contenta
S'altri vive del suo ch'ella nol senta.

Chi nol sa di ch'io vivo e vissi sempre
Dal di che prima que'begli occhi vidi,
Che mi fecer cangiar vita e costume?
Per cercar terra e mar da tutti i lidi,
Chi può saver tutte l'umane tempre?
L'un vive, ecco, d' odor là sul gran fiume;
Io qui di foco e lume

Queto i frali e famelici miei spirti.
Amor (e vo' ben dirti),

Disconviensi a signor l'esser sì parco.

Tu hai li strali e l'arco;

Fa'di tua man, non pur bramando, i' mora: Ch'un bel morir tutta la vita onora.

Chiusa fiamma è più ardente; e se pur cresce, In alcun modo più non può celarsi; Amor, i' 'l so, che 'l provo alle tue mani.

Vedesti ben quando sì tacito arsi:
Or de' mei gridi a me medesmo incresce,
Che vo noiando e prossimi e lontani.
O mondo, o pensier vani!

O mia forte ventura a che m'adduce!
O di che vaga luce

Al cuor mi nacque la tenace speme
Onde l'annoda e preme

Quella che con tua forza al fin mi mena!
La colpa è vostra, e mio 'l danno e la pena.
Così di ben amar porto tormento,

E del peccato altrui cheggio perdono;
Anzi del mio, che devea torcer gli occhi
Dal troppo lume, e di sirene al suono
Chiuder gli orecchi; ed ancor non men pento
Che di dolce veleno il cor trabocchi.
Aspett'io pur che scocchi

L'ultimo colpo chi mi diede il primo:
E fia, s'i' dritto estimo,

Un modo di pietate occider tosto,
Non essend' ei disposto

A far altro di me che quel che soglia;

Chè ben mor chi morendo esce di doglia.

Canzon mia, fermo in campo

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