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Pon dal ciel mente alla mia vita oscura,
Da si lieti pensieri a pianger vôlta.

La falsa opinion dal cor s'è tolta Che mi fece alcun tempo acerba e dura Tua dolce vista: omai tutta secura Volgi a me gli occhi, ei miei sospiri ascolta. Mira il gran sasso donde Sorga nasce, E vedra'vi un che sol tra l'erbe e l'acque Di tua memoria e di dolor si pasce.

Ove giace' tuo albergo e dove nacque Il nostro amor, vo' ch' abbandoni e lasce, Per non veder ne'tuoi quel ch'a te spiacque.

SONETTO XXXVIII. - 265.

Dolente, la cerca, e non trovandola, conchiude esser ella dunque salita al cielo.

Quel Sol che mi mostra va il cammin destro Di gire al ciel con glorïosi passi, Tornando al sommo sole, in pochi sassi Chiuse 'l mio lume e 'l suo carcer terrestro: Ond' io son fatto un animal silvestro, Che co' piè vaghi, solitari e lassi

Porto 'l cor grave, e gli occhi umidi e bassi Al mondo, ch'è per me un deserto alpestro.

Così vo ricercando ogni contrada Ov'io la vidi; e sol tu che m'affligi, Amor, vien meco, e mostrimi ond'io vada. Lei non trov'io ; ma suoi santi vestigi, Tutti rivolti alla superna strada, Veggio, lunge da' laghi averni e stigi.

SONETTO XXXIX. - 266.

Ella era sì bella, ch'e' si reputa indegno di averla veduta, non che di lodarla.

Io pensava assai destro esser su l'ale, Non per lor forza ma di chi le spiega, Per gir, cantando, a quel bel nodo eguale Onde Morte m'assolve, Amor mi lega.

Trovaimi all'opra via più lento e frale D'un picciol ramo cui gran fascio piega; E dissi: A cader va chi troppo sale; Nè si fa ben per uom quel che 'l Ciel nega.

Mai non poria volar penna d'ingegno, Non che stil grave o lingua, ove Natura Volò tessendo il mio dolce ritegno. Seguilla Amor con sì mirabil cura In adornarlo, ch'i' non era degno Pur della vista; ma fu mia ventura.

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Tentò di pinger le bellezze di lei, ma non ardisce di farlo delle virtù.

Quella per cui con Sorga ho cangiat'Arno,
Con franca povertà serve ricchezze,
Volse in amaro sue sante dolcezze,

Ond' io già vissi, or me ne struggo e scarno.
Da poi più volte ho riprovato indarno
Al secol che verrà l'alte bellezze

Pinger cantando, acciocchè l'ame e prezze;
Nè col mio stile il suo bel viso incarno.

Le lode mai non d'altra, e proprie sue, Che 'n lei fur, come stelle in cielo, sparte, Pur ardisco ombreggiar or una or due:

Ma poi ch'i'giungo alla divina parte, Ch' un chiaro e breve sole al mondo fue, Ivi manca l'ardir, l' ingegno e l'arte.

SONETTO XLI. - 268.

Laura è un miracolo; e però gli è impossibile descriverne l'eccellenze.

L'alto e novo miracol ch'a'di nostri Apparve al mondo, e star seco non volse;

Che sol ne mostrò 'l Ciel, poi sel ritolse Per adornarne i suoi stellati chiostri:

Vuol ch' i'dipinga a chi nol vide e'l mostri, Amor che 'n prima la mia lingua sciolse, Poi mille volte indarno all' opra volse Ingegno, tempo, penne, carte e 'nchiostri.

Non sono al sommo ancor giunte le rime: In me 'l conosco; e proval ben chiunque È infin a qui, che d'amor parli e scriva. Chi sa pensare il ver, tacito estime, Ch'ogni stil vince, e poi sospire; adunque Beati gli occhi che la vider viva!

SONETTO XLII. -269.

Primavera, lieta per tutti, il rattrista
nel ricordargli il gravo suo danno.

Zefiro torna, e 'l bel tempo rimena,
Ei fiori e l'erbe, sua dolce famiglia,
E garrir Progne e pianger Filomena,
E primavera candida e vermiglia.

Ridono i prati, e 'l ciel si rasserena; Giove s'allegra di mirar sua figlia; L'aria e l'acqua e la terra è d'amor piena; Ogni animal d'amar si riconsiglia.

Ma per me, lasso, tornano i più gravi Sospiri, che del cor profondo tragge Quella ch'al ciel se ne portò le chiavi: E cantare augelletti, e fiorir piagge, E 'n belle donne oneste atti soavi, Sono un deserto, e fere aspre e selvagge.

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Il pianto dell' usignolo rammentagli quella ch' ei non credeva mai di perdere.

Quel rosignuol che sì soave piagne
Forse suoi figli o sua cara consorte,
Di dolcezza empie il cielo e le campagne
Con tante note sì pietose e scorte;

E tutta notte par che m' accompagne
E mi rammente la mia dura sorte:
Ch'altri che me non ho di cui mi lagne;
Che 'n Dee non credev'io regnasse Morte.

O che lieve è ingannar chi s'assecura! Que' duo bei lumi, assai più che 'l Sol chiari, Chi pensò mai veder far terra oscura?

Or conosch'io che mia fera ventura Vuol che vivendo e lagrimando impari Come nulla quaggiù diletta e dura.

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