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Quel vivo Lauro, ove solean far nido
Gli alti pensieri e i miei sospiri ardenti,
Che dei bei rami mai non mossen fronda;

Al ciel traslato, in quel suo albergo fido
Lasciò radici, onde con gravi accenti
E ancor chi chiami, e non è chi risponda.

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Tanto più s'innamora di Laura nel cielo, quanto meno dovea amarla quaggiù.

I dì miei più leggier che nessun cervo, Fuggir com'ombra; e non vider più bene Ch'un batter d'occhio e poche ore serene, Ch'amare e dolci nella mente servo.

Misero mondo, instabile e protervo! Del tutto è cieco chi 'n te pon sua spene: Che 'n te mi fu 'l cor tolto; ed or sel tene Tal ch'è già terra e non giunge osso a nervo. Ma la forma miglior, che vive ancora, E vivrà sempre su nell'alto cielo, Di sue bellezze ognor più m'innamora,

E vo, sol in pensar, cangiando 'l pelo, Qual ella è oggi e 'n qual parte dimora: Qual a vedere il suo leggiadro velo.

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Rivede Valchiusa. Tutto gli parla di lei.
Pensa al passato, e se ne rattrista.

Sento l'aura mia antica, e i dolci colli
Veggio apparir onde 'l bel lume nacque
Che tenne gliocchi miei mentr'al Ciel piacque
Bramosi e lieti, or li tien tristi e molli.
O caduche speranze! o pensier folli!
Vedove l'erbe, e torbide son l'acque:
E vôto e freddo 'l nido in ch'ella giacque,
Nel qual io vivo, e morto giacer volli,
Sperando alfin dalle soavi piante
E da' begli occhi suoi, che 'l cor m'hann'arso,
Riposo alcun delle fatiche tante.

Ho servito a signor crudele e scarso; Ch'arsi quanto il mio foco ebbi davante; Or vo piangendo il suo cenere sparso.

SONETTO LIII. - 280.

La vista della casa di Laura gli ricorda quant'ei fu felice, e quanto è misero.

È questo 'l nido in che la mia fenice Mise l'aurate e le purpuree penne;

1

Che sotto le sue ali il mio cor tenne,
E parole e sospiri anco ne elice?

O del dolce mio mal prima radice,
Ov'è 'l bel viso onde quel lume venne,
Che vivo e lieto, ardendo, mi mantenne?
Sola eri in terra; or se' nel Ciel felice.

E m'hai lasciato qui misero e solo,

Tal che pien di duol sempre al loco torno Che per te consecrato onoro e colo;

Veggendo a' colli oscura notte intorno, Onde prendesti al Ciel l'ultimo volo, E dove gli occhi tuoi solean far giorno.

CANZONE III. — 42.

Allegoricamente descrive le virtù di lei,
e ne piange la morte immatura.

Standomi un giorno, solo, alla fenestra,
Onde cose vedea tante e sì nove
Ch'era sol di mirar quasi già stanco,
Una fera m'apparve da man destra
Con fronte umana da far arder Giove,

Cacciata da duo veltri, un nero, un bianco,
Che l'uno e l'altro fianco

Della fera gentil mordean sì forte,

PETRARCA.

20

Che 'n poco tempo la menaro al passo
Ove chiusa in un sasso

Vinse molta bellezza acerba morte;
E mi fe sospirar sua dura sorte.
Indi per alto mar vidi una nave
Con le sarte di seta e d'ôr la vela,
Tutta d'avorio e d'ebeno contesta;
E'l mar tranquillo e l'aura era soave,
E 'l ciel qual è se nulla nube il vela;
Ella carca di ricca merce onesta.
Poi repente tempesta

Oriental turbò sì l'aere e l'onde,
Che la nave percosse ad uno scoglio.
O che grave cordoglio!

Breve ora oppresse e poco spazio asconde
L'alte ricchezze a null'altre seconde.
In un boschetto novo i rami santi
Fiorían d'un lauro giovenetto e schietto,
Ch'un degli arbor parea di paradiso;
E di sua ombra uscian sì dolci cauti
Di vari augelli, e tanto altro diletto,
Che dal mondo m'avean tutto diviso,
E mirandol io fiso,

Cangioss'il ciel intorno, e tinto in vista,

וי

Folgorando 'l percosse, e da radice
Quella pianta felice

Subito svelse: onde mia vita è trista;
Chè simil ombra mai non si racquista.

Chiara fontana in quel medesmo bosco
Sorgea d'un sasso, ed acque fresche e dolci
Spargea, soavemente mormorando:
Al bel seggio riposto, ombroso e fosco,
Nè pastori appressavan nè bifolci,
Ma ninfe e muse, a quel tenor cantando.
Ivi m'assisi; e quando

Più dolcezza prendea di tal concento
E di tal vista, aprir vidi uno speco,
E portarsene seco

La fonte e 'l loco: ond' ancor doglia sento
E sol della memoria mi sgomento.
Una strania fenice, ambedue l'ale
Di porpora vestita e 'l capo d'oro,
Vedendo per la selva, altera e sola,
Veder forma celeste ed immortale
Prima pensai, fin ch'allo svelto alloro
Giunse, ed al fonte che la terra invola.
Ogni cosa alfin vola:

Chè mirando le frondi a terra sparse

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