Morte m'ha morto; e sola può far Morte Ch'i' torni a riveder quel viso lieto, Che piacer mi facea i sospiri e 'l pianto, Or avess'io un sì pietoso stile Che già forse le piacque, anzi che Morte Chiaro a lei giorno, a me fesse atre notti. O voi che sospirate a miglior notti, Ch'ascoltate d'Amore o dite in rime, Pregate non mi sia più sorda Morte, Porto delle miserie e fin del pianto; Muti una volta quel suo antico stile, Ch'ogni uom attrista, e me può far sì lieto. Far mi può lieto in una o 'n poche notti: E 'n aspro stile e 'n angosciose rime Prego che 'l pianto mio finisca Morte. Invia le sue rime al sepolcro di lei, perche la preghino di chiamarla seco. Ite, rime dolenti, al duro sasso Che 'l mio caro tesoro in terra asconde; Ivi chiamate chi dal ciel risponde, Benchè 'l mortal sia in loco oscuro e basso. Ditele ch'i'son già di viver lasso, Del navigar per queste orribili onde; Ma ricogliendo le sue sparte fronde, Dietro le vo pur così passo passo, Sol di lei ragionando viva e morta, Anzi pur viva, ed or fatta immortale,. Acciocchè 'l mondo la conosca ed ame. Piacciale al mio passar essere accorta, Ch'è presso omai; siami a l'incontro, e quale Ella è nel cielo, a sè mi tiri e chiame. Or ch'ella sa ch'ei fu onesto nell'amor suo, vorrà alfin consolarlo pietosa. S'onesto amor può meritar mercede, E se pietà ancor può quant' ella suole, Mercede avrò, che più chiara che 'l sole A Madonna ed al mondo è la mia fede. Già di me paventosa, or sa, nol crede, Che quello stesso ch'or per me si vole, Sempre si volse; e s'ella udia parole O vedea 'l volto, or l'anima e 'l cor vede. Ond' i' spero che 'nfin dal ciel si doglia De' miei tanti sospiri : e così mostra, Tornando a me sì piena di pietate. E spero ch' al por giù di questa spoglia, Venga per me con quella gente nostra, Vera amica di Cristo e d'onestate. Videla in immagine quale spirito celeste. Vidi fra mille donne una già tale, Niente in lei terreno era o mortale, Siccome a cui del ciel, non d'altro, calse. L'alma ch'arse per lei sì spesso ed alse, Vaga d'ir seco, aperse ambedue l'ale. Ma tropp'era alta al mio peso terrestre: E poco poi m'uscì 'n tutto di vista; Di che pensando, ancor m'agghiaccio e torpo. O belle ed alte e lucide fenestre Onde colei che molta gente attrista Trovò la via d'entrare in sì bel corpo! Gli sta si fisa nel cuore e negli occhi, ch'e'giunge talvolta a crederla viva. Tornami a mente, anzi v'è dentro, quella Ch'indi per Lete esser non può sbandita, Qual io la vidi in su l'età fiorita, Sì nel mio primo occorso onesta e bella Talor risponde e talor non fa motto. I', com'uom ch'erra e poi più dritto estima, Dico alla mente mia: Tu se' ingannata: Sai che 'n mille trecento quarantotto, Il dì sesto d'aprile, in l'ora prima, Del corpo uscío quell'anima beata. SONETTO LXIII. - 291. Natura oltr'al costume, riunì in lei ogni bellezza, ma fecela tosto sparire. Questo nostro caduco e fragil bene, Ch'è vento ed ombra ed ha nome beltate, Non fu giammai, se non in questa etate Tutto in un corpo; e ciò fu per mie pene. Chè natura non vôl nè si convene, Per far ricco un, por gli altri in povertate: Or versò in una ogni sua largitate: Perdonimi qual è bella, o si têne. |