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Non fu simil bellezza antica o nova:
Nè sarà, credo; ma fu sì coverta,
Ch'appena se n'accorse il mondo errante.

Tosto disparve: onde 'l cangiar mi giova
La poca vista a me dal cielo offerta
Sol per piacer alle sue luci sante.

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Disingannato dall'amor suo di quaggiù, rivolgesi ad amarla nel cielo.

O tempo, o ciel volubil, che fuggendo Inganni i ciechi e miseri mortali; O di veloci più che vento e strali, Or ab esperto vostre frodi intendo.

Ma scuso voi, e me stesso riprendo; Chè natura a volar v'aperse l'ali; A me diede occhi: ed io pur ne'miei mali Li tenni; onde vergogna e dolor prendo. E sarebbe ora, ed è passata omai, Da rivoltarli in più secura parte, E poner fine agli infiniti guai.

Nè dal tuo giogo, Amor, l'alma si parte, Ma dal suo mal; con che studio, tu 'l sai; Non a caso è virtute, anzi è bell'arte.

SONETTO LXV. - 293.

Ben a ragione e' teneasi felice in amarla, se Dio se la tolse come cosa sua.

Quel che d'odore e di color vincea
L'odorifero e lucido orrente,

Frutti, fiori, erbe e frondi; onde 'l ponente
D'ogni rara eccellenzia il pregio avea;
Dolce mio lauro, ov'abitar solea
Ogni bellezza, ogni virtute ardente,
Vedeva alla sua ombra onestamente
Il mio signor sedersi e la mia Dea.

Ancor io il nido di pensieri eletti
Posi in quell'alma pianta: e 'n foco e 'n gelo
Tremando, ardendo, assai felice fui.

Pieno era 'l mondo de' suoi onor perfetti; Allor che Dio, per adornarne il cielo, La si ritolse: e cosa era da lui.

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Ei sol, che la piange, e 'l cielo, che la possiede, la conobbero mentre visse.

Lasciato hai, Morte, senza sole il mondo Oscuro e freddo, Amor cieco ed inerme,

Leggiadria ignuda, le bellezze inferme,
Me sconsolato ed a me grave pondo;

Cortesia in bando ed onestate in fondo: Dogliom'io sol, nè sol ho da dolerme; Chè svelt' hai di virtute il chiaro germe. Spento il primo valor, qual fia il secondo?

Pianger l'aer e la terra e 'lmar devrebbe L'uman legnaggio, che, senz'ella, è quasi Senza fior prato, o senza gemma anello.

Non la conobbe il mondo mentre l'ebbe; Conobbil'io, ch'a pianger qui rimasi, E 'l Ciel, che del mio pianto or si fa bello.

SONETTO LXVII. 295.

Si scusa di non averla lodata com'ella merits perchè gli era impossibile.

Conobbi, quanto il ciel gli occhi m'aperse, Quanto studio ed Amor m'alzaron l'ali, Cose nove e leggiadre, ma mortali, Che 'n un soggetto ogni stella cosperse. L'altre tante, sì strane e sì diverse Forme altere, celesti ed immortali, Perchè non furo all'intelletto eguali, La mia debile vista non sofferse.

Onde quant' io di lei parlai nè scrissi, Ch'or per lodi anzi a Dio preghi mi rende, Fu breve stilla d'infiniti abissi:

Chè stilo oltra l'ingegno non si stende; E per aver uom gli occhi nel Sol fissi, Tanto si vede men quanto più splende.

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La prega di consolarlo almen con la dolce e cara vista della sua ombra.

Dolce mio caro e prezioso pegno
Che natura mi tolse e 'l ciel mi guarda,
Deh come è tua pietà vêr me sì tarda,
O usato di mia vita sostegno?

Già suo' tu far il mio sonno almen degno Della tua vista, ed or sostien'ch' i'arda Senza alcun refrigerio: e chi 'l ritarda ? Pur lassù non alberga ira nè sdegno;

Onde quaggiuso un ben pietoso core
Talor si pasce degli altrui tormenti,
Sì ch'egli è vinto nel suo regno Amore.

Tu che dentro mi vedi, e 'l mio mal senti, E sola puoi finir tanto dolore,

Con la tua ombra acqueta i miei lamenti.

SONETTO LXIX. - 297.

È rapito fuori di sè, contento e beato
di averla veduta e sentita parlare.

Deh qual pietà, qual angel fu sì presto
A portar sopra 'l cielo il mio cordoglio?
Ch'ancor sento tornar pur come soglio
Madonna in quel suo atto dolce e onesto
Ad acquetar il cor misero e mesto,
Piena si d'umiltà, vôta d'orgoglio,
E 'n somma tal, ch' a morte i' mi ritoglio,
E vivo, e 'l viver più non m'è molesto.
Beata s'è, che può beare altrui
Con la sua vista, ovver con le parole
Intellette da noi soli ambedui.

Fedel mio caro, assai di te mi dole; Ma pur per nostro ben dura ti fui: Dice, e cos' altre d'arrestare il Sole.

SONETTO LXX. - 298.

Mentr'ei piange, essa accorre ad asciugargli le lagrime e lo riconforta.

Delcibo onde 'l Signor mio sempre abbonda, Lagrime e doglia, il cor lasso nudrisco;

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