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CAPITOLO IV. — 4.

Notifica che come fu innamorato si dimesticò subito con tutti gli altri consorti suoi, de'quali conobbe le pene e i casi; e che vide alcuni poeti amorosi, di varie nazioni. Quindi, colta opportunità, piagne la morte di Tommaso da Messina; e commenda Lelio e Socrate, suoi amicissimi. Poi ritorna alla sua materia, narrando per quali vie e a qual luogo egli e i suoi compagni prigioni fossero menati in trionfo.

Poscia che mia fortuna in forza altrui
M' ebbe sospinto, e tutti incisi i nervi
Di libertate ove alcun tempo fui;
Io, ch'era più salvatico ch'e cervi,
Ratto domesticato fui con tutti
I miei infelici e miseri conservi:

E le fatiche lor vidi e'lor lutti,
Per che torti sentieri e con qual arte
All'amorosa greggia eran condutti.
Mentre ch'io volgea gliocchi in ogni parte,
S'i'ne vedessi alcun di chiara fama
O per antiche o per moderne carte,
Vidi colui che sola Euridice ama,

E lei segue all' inferno, e, per lei morto,
Con la lingua già fredda la richiama.

Alceo conobbi, a dir d'amor sì scorto: Pindaro, Anacreonte, che rimesse Avea sue muse sol d'Amore in porto. Virgilio vidi; e parmi intorno avesse Compagni d'alto ingegno e da trastullo, E quei che volentier già 'l mondo elesse.

L'un era Ovidio e l'altr' era Tibullo, L'altro Properzio, che d'amor cantaro Fervidamente, e l' altr' era Catullo. Una giovene greca a paro a paro Coi nobili poeti gía cantando; Ed avea un suo stil leggiadro e raro. Così or quinci or quindi rimirando, Vidi in una fiorita e verde piaggia Gente che d'amor givan ragionando.

Ecco Dante e Beatrice; ecco Selvaggia; Ecco Cin da Pistoia; Guitton d'Arezzo, Che di non esser primo par ch' ira aggia. Ecco i duo Guidi, che già furo in prezzo; Onesto Bolognese ; e i Siciliani, Che fur già primi, e quivi eran da sezzo; Sennuccio e Franceschin, che fur sì umani Com'ogni uom vide; e poi v'era un drappello Di portamenti e di volgari strani.

Fra tutti il primo Arnaldo Daniello, Gran maestro d' amor; ch' alla sua terra Ancor fa onor col suo dir novo e bello,

Eranvi quei ch'Amor sì leve afferra, L'un Pietro e l'altro; e'l men famoso Arnaldo; E quei che fur conquisi con più guerra, I' dico l'uno e l'altro Raimbaldo, Che cantò pur Beatrice in Monferrato; E'l vecchio Pier d'Alvernia con Giraldo; Folchetto, ch'a Marsiglia il nome ha dato, Ed a Genova tolto, ed all'estremo Cangiò per miglior patria abito e stato;

Gianfrè Rudel, ch' usò la vela e 'l remo A cercar la sua morte; e quel Guglielmo Che per cantar ha 'l fior de' suoi di scemo; Amerigo, Bernardo, Ugo ed Anselmo ; E mille altri ne vidi; a cui la lingua Lancia e spada fu sempre e scudo ed elmo.

E poi convien che 'l mio dolor distingua, Volsimi a' nostri, e vidi 'I buon Tomasso, Ch' ornò Bologna, ed or Messina impingua. O fugace dolcezza! o viver lasso!

Chi mi ti tolse sì tosto dinanzi,

Senza 'l qual non sapea mover un passo?

Dove se' or che meco eri pur dianzi? Ben è 'l viver mortal, che sì n'aggrada, Sogno d'infermi e fola di romanzi.

Poco era fuor della comune strada, Quando Socrate e Lelio vidi in prima: Con lor più lunga via convien ch' io vada. O qual coppia d' amici ! che nè 'n rima Poria nè 'n prosa assai ornar nè 'n versi, Se, come dè', virtù nuda si stima.

Con questi duo cercai monti diversi, Andando tutti tre sempre ad un giogo; A questi le mie piaghe tutte apersi. Da costor non mi può tempo nè luogo Divider mai (siccome spero e bramo)

Infin al cener del funereo rogo.

Con costor colsi 'l glorioso ramo Onde forse anzi tempo ornai le tempie In memoria di quella ch'i' tant' amo. Ma pur di lei che 'l cor di pensier m'empie Non potei coglier mai ramo nè foglia; Sì fur le sue radici acerbe ed empie.

Onde, benchè talor doler mi soglia Com'uom ch'è offeso,quel che con quest'occhi Vidi, m'è un fren che mai più non mi doglia.

Materia da coturni, e non da socchi,
Veder preso colui ch'è fatto Deo
Da tardi ingegni, rintuzzati e sciocchi.
Ma prima vo' seguir che di noi feo:
Poi seguirò quel che d'altrui sostenne;
Opra non mia, ma d'Omero o d'Orfeo.
Seguimmo il suon delle purpuree penne
De' volanti corsier per mille fosse,
Fin che nel regno di sua madre venne:
Nè rallentate le catene o scosse,
Ma straziati per selve e per montagne,
Tal che nessun sapea 'n qual mondo fosse.
Giace oltra, ove l'Egeo sospira e piagne,
Un'isoletta delicata e molle

Più ch'altra che 'l Sol scalde o che 'l mar bagne.
Nel mezzo è un ombroso e verde colle
Cón sì soavi odor, con sì dolci acque,
Ch'ogni maschio pensier dell' alma tolle.
Quest' è la terra che cotanto piacque
A Venere, e 'n quel tempo a lei fu sacra,
Che 'l ver nascoso e sconosciuto giacque.

Ed anco è di valor sì nuda e macra,
Tanto ritien del suo primo esser vile,
Che par dolce a' cattivi, ed a'buoni acra.

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